Nella vita di ogni scienziato c’è un episodio in cui per una precisa ragione si accende un faro che da lì in poi ne guida il lavoro per tutta la vita. Per me quel momento è stato l’incontro al MIT di Boston con una donna speciale, che ha saputo riunire attorno a sé passione e scienziati in una battaglia contro un male allora oscuro, che aveva colpito la sua famiglia e di cui non si conosceva l’origine. È grazie a lei, Nancy Wexler, che oggi conosciamo la malattia di Huntington e il difetto genetico che la causa portando alla distruzione di una specifica porzione del cervello, con perdita del controllo dei movimenti, depressione, disturbi psichiatrici e, infine, purtroppo, la morte. Mai come in questo caso la conoscenza ha sconfitto la discriminazione che per molto tempo ha circondato queste persone, con risvolti tragici.

UNA “DANZA” La prima descrizione clinica di questa malattia risale a oltre un secolo fa, quando per indicarla venne per la prima volta usato il termine còrea (dal greco “danza”), per sottolineare come le persone affette siano a poco a poco preda di movimenti involontari e incontrollabili, tali da alterare anche la mimica facciale. Per anni l’ignoranza sull’origine di questi sintomi ha portato all’emarginazione dei malati di Huntington, considerati in alcune aree del mondo “posseduti dal demonio” e perciò allontanati dalla società. Nel 1933 un decreto del regime nazista indicava la còrea di Huntington tra le nove malattie per cui veniva imposta la sterilizzazione di Stato, anticamera di un destino ancora più crudele che pochi anni dopo si sarebbe concretizzato nelle camere a gas.

A metà degli anni ‘70, quando Nancy ha iniziato la sua avventura sfidando la non conoscenza, la situazione non era così diversa: le persone della sua famiglia malate – la madre e gli zii – venivano additate come “pazzi” o “alcolizzati” e avevano subito quello stesso stigma sociale. Così Nancy, che studiava psicologia e di biologia non aveva fatto che un esame, decise che bisognava fare qualcosa. Ha iniziato a viaggiare per le università americane per reclutare scienziati disposti a capire quale fosse l’origine di questa malattia, unendo le forze alla ricerca del gene responsabile. Si intuiva, infatti, che l’origine fosse genetica, ma gli strumenti a disposizione erano ancora molto limitati.

Nancy aveva intuito che si sarebbe potuta trovare una risposta in alcuni piccoli villaggi del Venezuela, sulle sponde del lago Maracaibo, dove l’idea che le persone malate fossero possedute dal demonio aveva di fatto promosso la loro segregazione e la creazione di interi villaggi in cui la percentuale di abitanti malati era fino al 40%.

LA SCOPERTA All’invito di Nancy “Let’s go to Venezuela” rispose una fetta importante della comunità scientifica, che prelevando il sangue di ben 10 mila persone riuscì a individuare il gene responsabile. Quella scoperta è stato l’inizio di tutto. È stato possibile disporre di un test per stabilire la presenza o meno della malattia nei familiari delle persone sintomatiche, ma anche avviare gli studi sui meccanismi e l’individuazione di potenziali strategie terapeutiche. Negli ultimi anni, grazie alle conoscenze maturate, in Gran Bretagna sono stati messi a punto dei farmaci sperimentali basati su segmenti di Dna in grado, una volta somministrati, di riconoscere in modo specifico il gene malato e di aderirvi come uno scotch, neutralizzandone l’effetto tossico: non potendo eliminare il gene difettoso possiamo provare a “silenziarlo”. I primi risultati sono davvero incoraggianti, i primi test sull’uomo del 2016 indicano come questi farmaci siano in grado di “spegnere” il gene dimezzandone la tossicità. Un risultato importante, che ha convinto le autorità regolatorie ad autorizzare una sperimentazione più ampia, su oltre 600 persone, che partirà quest’anno e vedrà coinvolti anche pazienti italiani.

Quando ho incontrato Nancy per la prima volta, questi risultati erano inimmaginabili. A renderli possibili è stato letteralmente il sangue di quella comunità sudamericana che ha risposto al suo appello e tuttora vive in condizioni di isolamento sociale e povertà estrema. A raccontare questa storia, meglio di tante parole, c’è “El mal”, uno splendido reportage del fotografo venezuelano Vladimir Marcano di cui si possono ammirare alcune fotografie online. Di fronte al prezioso contributo che queste persone hanno dato alla scienza, con alcuni colleghi impegnati a studiare la malattia ci siamo chiesti come potessimo ripagare quel debito nei loro confronti.

L’INCONTRO Così nel 2016, durante un meeting scientifico, abbiamo scritto una lettera a Papa Francesco chiedendo un’udienza per un malato venezuelano in rappresentanza di tutta la comunità sudamericana, perché si potesse fare luce sulla loro storia, dare loro dignità e speranza. Dall’esemplare risposta del Santo Padre - perché abbracciarne uno solo? Perché non abbracciarli tutti? - è nata “Hidden no more/Oculta Nunca Más”, un’iniziativa straordinaria culminata in un’udienza con Papa Francesco il 18 maggio 2017 presso la Sala Nervi, a cui hanno preso parte oltre cento pazienti arrivati da Venezuela e Colombia e da altri paesi del Sudamerica. Persone che fino ad allora non erano mai uscite dai loro villaggi, non avevano il passaporto né una borsa dove sistemare le proprie cose. A loro se ne sono aggiunte centinaia da 25 diversi paesi. Ma in prima fila c’erano loro, gli ultimi degli ultimi. «Mai più nascosta - ha detto quel giorno Papa Francesco - non è uno slogan, ma un impegno».

Dopo quella giornata indimenticabile - tanto per loro quanto per me - sono tornati ai loro villaggi e alla loro dura lotta quotidiana. Ma con quelle famiglie ormai esiste un legame indissolubile: conosciamo i loro nomi e le loro storie, periodicamente organizziamo incontri e visite mediche. La loro storia sfortunata è stata un punto di forza per la scienza, tutto quello che siamo riusciti a ottenere è grazie a loro e alla chiamata alle armi di Nancy. Per questo - come ogni ricercatore - posso promettere che quel faro che si è acceso ormai quasi 30 anni fa non si spegnerà mai.

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