Mamma Charlotte: grazie alla ricerca la malattia dei miei figli ha un nome

Alex e Dylan hanno aspettato per anni una diagnosi. Oggi la loro patologia ha un nome e i loro genitori possono confrontarsi con altre famiglie che condividono stesso percorso.

Due cuori invece di uno: è questo il ricordo più vivido di Charlotte, inglese di Birmingham, dell’ecografia che, alla dodicesima settimana di gravidanza, le ha rivelato che aspettava due gemelli. «Avevo già un altro figlio più grande, Jack - ricorda - così quando mi sono cominciate le contrazioni ho capito subito che stavo entrando in travaglio prematuramente e sono corsa in ospedale, dove mi si sono rotte le acque. La posizione dei gemelli ha costretto i medici a praticare un cesareo d’urgenza: alla nascita Alex e Dylan pesavano poco e non respiravano, ma per fortuna sono riusciti subito a rianimarli. Siamo rimasti un mese nell’Unità Neonatale, i medici si sono presi cura di noi, hanno fatto tutti gli esami del caso e ci hanno rimandati a casa il giorno del mio compleanno. Era il 26 ottobre 2010 e per noi cominciava un nuovo, meraviglioso capitolo della nostra vita».

Invece, dopo sole tre settimane entrambi i gemelli iniziano a stare male: febbre e problemi a respirare, che li costringono al ricovero.

«Durante il loro primo anno di vita abbiamo trascorso più tempo in ospedale che a casa».

Charlotte, mamma di Alex e Dylan

«Alex - ricorda la mamma - è addirittura finito in terapia intensiva, abbiamo realmente temuto di perderlo. Non sapevamo ancora che quei continui ricoveri stavano distogliendo la nostra attenzione da un problema più grande: i gemelli erano decisamente “più indietro” rispetto ai loro coetanei. Ma la prima volta che ne ho parlato con i medici hanno minimizzato, dicendo che appena dimessi avrebbero presto recuperato». L’estate di Charlotte e della sua famiglia, invece, viene passata tutta dentro e fuori dall’ospedale: stabilizzata la situazione, vengono affidati a uno staff dedicato, ma nonostante gli sforzi i gemelli non fanno i progressi attesi, né dal punto di vista motorio né da quello cognitivo.

A due anni entrambi vengono sottoposti a risonanza magnetica al cervello, che però risulta normale. Quando iniziano l’asilo cambiano anche il pediatra, il quale per la prima volta si fa una domanda diversa. «Ci ha chiesto se avessimo mai fatto dei test genetici e ha citato una parola che non avevo mai sentito, “dismorfismi”. Per quanto capisca perché sia importante per una diagnosi e per i genetisti, continuo a trovare difficile parlare dei miei bellissimi bambini in termini di “anomalie sindromiche”: loro assomigliano al loro fratello maggiore e ai loro genitori. Ad ogni modo - continua Charlotte - nonostante questo sia arrivato come un fulmine a ciel sereno, in qualche modo ha confermato un sospetto che in cuor mio avevo sempre avuto». I medici sono abbastanza scettici riguardo all’origine genetica, ma prescrivono ugualmente un primo test in grado di individuare anomalie nel numero o nella struttura dei cromosomi, il microarray. Anche questo test risulta negativo: «a quel punto ci sentivamo sfiniti, quasi in colpa per aver anche solo pensato che ci potesse essere qualcosa di “sbagliato” e che stavamo solo perdendo tempo. Va comunque detto che i medici erano stati assolutamente gentili e mai avrebbero voluto che ci sentissimo così». I genetisti decidono comunque di andare più a fondo e inseriscono i gemelli in un programma di studio finalizzato all’identificazione dei disturbi dello sviluppo che ha coinvolto oltre 14 mila bambini inglesi e irlandesi: ormai è abbastanza chiaro che la causa del ritardo di sviluppo di Alex e Dylan sia di natura genetica, ma quale sia è ancora un mistero.

Passano due anni prima che la genetica irrompa nuovamente nella vita di Charlotte: «La nostra quotidianità procedeva, ma c’era sempre un piccolo tarlo che non mi abbandonava, mi chiedevo che cosa realmente avessero i miei figli. Nell’estate del 2017 la genetista si è rifatta viva e ci ha convocati per una visita di controllo. Siamo quindi rimasti esterrefatti quando, una volta lì, ci ha detto che effettivamente avevano trovato qualcosa: prima di entrare nei dettagli, però, ha voluto nuovamente visitare i gemelli. Quando ha nominato per la prima volta una rara sindrome, quella di Nicolaides Baraitser, non sembrava completamente convinta… il perché di quella perplessità lo avremmo capito solo qualche anno dopo».

La sindrome ipotizzata dalla genetista, descritta per la prima volta nel 1993, è molto rara ed è caratterizzata da disabilità intellettiva, ritardo nel linguaggio, epilessia, microcefalia, anomalie delle dita; è dovuta a mutazioni de novo (ovvero non ereditarie) del gene SMARCA2, che codifica per una proteina che regola l’espressione di molti altri geni. In uno dei gemelli è stata effettivamente riscontrata, grazie all’analisi genetica, una mutazione in questo gene, ma il difetto è in una posizione completamente diversa da quelle descritte fino a quel momento in altri pazienti con questa sindrome. Inoltre, i gemelli non rientrano del tutto nel quadro clinico tipico: hanno un aspetto diverso e non hanno mai avuto una crisi epilettica. Qualche mese dopo, nel febbraio 2018, le analisi genetiche confermano che il difetto a carico del gene SMARCA2 è presente anche nell’altro gemello e che può essere definitivamente considerato causativo della loro patologia. La diagnosi però, rimane ancora incerta, le discrepanze con gli altri pazienti permangono.

La svolta arriva dal confronto con altri casi nel mondo: pochi mesi prima, ricercatori dell’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Pozzuoli avevano identificato un caso analogo in un bambino di Caserta, Giorgio e si erano attivati per confermare il loro sospetto di trovarsi davanti a una sindrome diversa da quella di Nicolaides Baraitser. Grazie un vero lavoro di team internazionale, due anni dopo i ricercatori confermano che il gene SMARCA2 può essere associato anche a un’altra sindrome che chiamano BIS, non solo perché è una sorta di “seconda versione” di quella inizialmente ipotizzata, ma anche perché è l’acronimo dei segni più caratteristici: la blefarofimosi, ovvero un’anomalia delle palpebre che rappresenta un vero e proprio segno distintivo di questi bambini, e la disabilità intellettiva, di grado variabile.

«Grazie ai ricercatori ora sappiamo che ci sono anche altre famiglie con una storia simile alla nostra da raccontare» commenta Charlotte, che è rimasta attivamente in contatto con loro durante la ricerca al punto da essere esplicitamente ringraziata nella pubblicazione scientifica che ne è scaturita nel luglio 2020. «Spero - conclude la mamma inglese - che un giorno questo gruppo cresca e, chissà, possiamo anche incontrarci fisicamente e condividere le nostre esperienze con i nostri meravigliosi bambini. I miei figli continuano a crescere e a splendere. Da qualche anno non ci sono stati più ricoveri in ospedale ed entrambi sono in grado di camminare da soli. Non parlano, ma sono sempre più in grado di comunicare in altri modi. Entrambi hanno un fantastico senso dell’umorismo, amano la vita e sono convinta rendano migliore la vita di chiunque incontrano».

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