Sindrome di Hurler e terapia genica: il punto della situazione

A raccontarlo è Maria Ester Bernardo, responsabile dello studio clinico avviato nel 2018 all’Ospedale San Raffaele di Milano su 8 bambini con questa grave forma di mucopolisaccaridosi.

Maria Ester Bernardo, responsabile dello studio clinico avviato nel 2018 all’Ospedale San Raffaele di Milano su 8 bambini con una grave forma di mucopolisaccaridosi.
Maria Ester Bernardo

Sono passati più di cinque anni da quando il primo dei bambini con sindrome di Hurler ha ricevuto la terapia genica sperimentale, messa a punto grazie al lavoro dei ricercatori dell’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano (SR-Tiget).

Si tratta della forma più grave di mucopolisaccaridosi di tipo 1 ed è dovuta alla carenza di un enzima fondamentale per la salute delle nostre cellule. Il deficit enzimatico porta all’accumulo di sostanze tossiche a livello di diversi organi, con un danno progressivo a livello di occhi, scheletro, cuore, muscoli e sistema nervoso già a partire dal secondo anno di vita. Se non si interviene, purtroppo, l’aspettativa di vita non supera i dieci anni.

A fare il punto sui risultati ottenuti finora è Maria Ester Bernardo, Coordinatore Clinico dell’Unità di Ricerca Clinica Pediatrica dell’SR-Tiget e responsabile dello studio: il suo team ha pubblicato un nuovo articolo su Science Translational Medicine che descrive gli effetti del trattamento sulle alterazioni delle ossa e delle articolazioni.

«Questa rara malattia è la forma più grave di mucopolisaccaridosi di tipo 1 ed è dovuta alla carenza di un enzima fondamentale per la salute delle nostre cellule. Il deficit enzimatico porta all’accumulo di sostanze tossiche a livello di diversi organi, con un danno progressivo a livello di occhi, scheletro, cuore, muscoli e sistema nervoso già a partire dal secondo anno di vita. Se non si interviene, purtroppo, l’aspettativa di vita non supera i dieci anni». 

Gli ultimi risultati dello studio

«Dall’avvio dello studio abbiamo osservato - spiega la ricercatrice - che i bambini trattati con la terapia genica si stanno sviluppando, dal punto di vista scheletrico, in linea con le normali curve di crescita dei soggetti sani. Tutti hanno effettuato la terapia quando avevano tra i 14 e i 35 mesi. Attraverso radiografie e risonanze magnetiche, abbiamo potuto constatare una stabilizzazione e, in qualche caso, un miglioramento delle alterazioni scheletriche, comprese quelle delle anche e della colonna vertebrale. Inoltre, abbiamo osservato che la rigidità articolare, che impedisce a questi bambini di compiere le normali attività quotidiane come vestirsi o lavarsi i denti, si risolve completamente in tempi brevi».

«Dall’avvio dello studio abbiamo potuto constatare una stabilizzazione e, in qualche caso, un miglioramento delle alterazioni scheletriche».

Maria Ester Bernardo

Continua Bernardo: «Se questi risultati sono duraturi o meno ancora non lo sappiamo: si tratta di dati preliminari che andranno confermati nei prossimi 4-5 anni, ma che ci danno grande conforto. Inoltre, rispetto a una coorte simile di pazienti esterna allo studio e trattata con il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche, la terapia genica sembra dare dei benefici aggiuntivi: ovviamente si tratta di un confronto retrospettivo che ha molti limiti dal punto di vista scientifico, ma che lascia sperare».

I dettagli dello studio

Attualmente, il trattamento che può dare maggiori benefici a questi bambini, purché eseguito precocemente, è il trapianto di cellule staminali ematopoietiche da donatore. Tuttavia, come spiega Maria Ester Bernardo, «il danno a carico di alcuni organi, quali per esempio gli occhi, lo scheletro e il cuore, permane anche in caso di trapianto molto precoce. Inoltre, non sempre è disponibile un donatore compatibile. Quanto alla terapia enzimatica sostitutiva, che consiste nell’infusione periodica dell’enzima prodotto per via sintetica, è ancora meno efficace in questa forma così grave della malattia. Da qui la necessità di provare a offrire un’altra opportunità a questi bambini grazie alla terapia genica». 

Il trattamento prevede in questo caso la correzione genetica delle cellule staminali prelevate dal bambino, grazie a un vettore virale contenente una o più copie del gene che codifica l’enzima mancante. Una volta modificate geneticamente, queste cellule vengono reinfuse nel sangue e sono in grado di raggiungere i vari organi: qui rilasciano l’enzima, anche in quantità superiore a quella fisiologica, detossificando l’organismo ed evitando così l’accumulo di sostanze tossiche.

Lo studio clinico è partito nel 2018 e ha coinvolto 8 bambini di diverse nazionalità e di età compresa tra i 14 e i 35 mesi al momento del trattamento. 

«Nessuno dei bambini finora è dovuto ricorrere all’apparecchio acustico - continua la ricercatrice -, come può accadere anche in chi si sottopone a trapianto. Inoltre, nessuno dei bambini trattati ha mostrato lo sviluppo di cardiopatia severa o di sindrome del tunnel carpale dopo la terapia genica. Anche riguardo alla displasia scheletrica progressiva e invalidante tipica della malattia abbiamo osservato segni di stabilizzazione o miglioramento dopo il trattamento».  

Gli sviluppi futuri

Di fronte a questi risultati così promettenti, all’inizio del 2024 lo sponsor dello studio, l’azienda Orchard Therapeutics, ha deciso di avviare una sperimentazione più ampia. Coinvolgerà sei centri clinici americani ed europei, compreso l’Ospedale San Raffaele di Milano, per un totale di 40 pazienti. L’obiettivo sarà valutare la sicurezza e l’efficacia della terapia genica, anche rispetto al trapianto di cellule staminali del sangue da donatore, che al momento è lo standard di riferimento. 

«Questa è un’ottima notizia – commenta Maria Ester Bernardo -. Non solo potremo offrire il trattamento ad altri bambini con la sindrome, ma avremo anche la possibilità di raccogliere ulteriori dati a supporto della richiesta di registrazione della terapia, come già avvenuto per altre malattie su cui abbiamo lavorato nel nostro Istituto come la leucodistrofia metacromatica». 

L’altro auspicio è che si diffonda maggiormente lo screening neonatale, quel test che permette di diagnosticare la sindrome nelle prime settimane di vita. Qualsiasi intervento, che sia il trapianto o la terapia genica, è tanto più efficace quanto più è eseguito precocemente.

«Purtroppo spiega la ricercatrice - la diffusione dello screening è ancora troppo frammentaria. Non solo a livello internazionale, anche sul territorio italiano, visto che solo poche regioni lo propongono nell’ambito di studi pilota. La tempestività della diagnosi fa la differenza in ogni caso. Speriamo quindi che quanto prima queste disparità vengano colmate». 

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