Sulla Stazione spaziale internazionale si sono svolti alcuni esperimenti di Emiliano Biasini sui prioni, responsabili di gravi malattie neurodegenerative.

La stazione spaziale internazionale - Foto NASA

Fondazione Telethon lo afferma spesso: la ricerca scientifica non ha confini. In genere, intendiamo dire che la conoscenza prodotta attraverso la ricerca scientifica può trovare applicazione negli ambiti più disparati, anche lontani da quello di partenza. Nella storia che raccontiamo oggi, però, il significato è anche letterale, perché parliamo di un progetto pronto che ha addirittura lasciato la Terra per raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale, in orbita 400 chilometri sopra le nostre teste. A coordinarlo è, tra gli altri, Emiliano Biasini, oggi professore all’Università di Trento, sostenuto da Fondazione Telethon fin dai suoi primi passi nella ricerca.

Obiettivo del progetto è sfruttare particolari condizioni che si verificano nello spazio per far luce sulle strutture assunte da una particolare proteina durante la sua maturazione. Parliamo della proteina prionica, balzata tristemente agli onori della cronaca negli anni Novanta durante la crisi del “morbo della mucca pazza”. Questa malattia - e la malattia correlata che si manifesta negli esseri umani - è infatti causata da una forma alterata della proteina prionica chiamata prione, coinvolta in generale in malattie neurodegenerative dette appunto “da prioni” tra le quali la malattia di Creutzfeld-Jakob o l’insonnia fatale familiare. Anche in questo caso, tuttavia, dai risultati del progetto potrebbero derivare conoscenze utili per capire meglio le basi biologiche di malattie neurodegenerative più diffuse, come la malattia di Alzheimer o quella di Parkinson.

«Non posso garantire che riusciremo a trovare una cura, ma posso garantire che ce la metteremo tutta».

Emiliano Biasini, ricercatore Telethon

Come spesso accade nella scienza, l’idea di spedire una proteina nello spazio per studiarla meglio non è germogliata all’improvviso nella mente di un singolo ricercatore, ma è frutto di una serie di relazioni, eventi, circostanze, che hanno anche reso possibile farlo davvero. Un intreccio che vale la pena raccontare (e leggere!) nel dettaglio.

Si cerca un approccio per spegnere la proteina prionica

Il primo protagonista dell’intreccio è proprio Emiliano Biasini, biologo di origini romane oggi a Trento in forza all'Istituto Telethon Dulbecco dopo un periodo passato negli Usa, da sempre appassionato di prioni. «Fin dall’università è stato amore a prima vista e non li ho più abbandonati» ci ha raccontato. La proteina prionica è una proteina normalmente presente sulla superficie delle cellule del cervello (ma anche altrove nell'organismo). Non ne conosciamo ancora bene la funzione, ma sappiamo che in seguito a cambiamenti strutturali può trasformarsi in una versione tossica chiamata prione, in grado di propagarsi ad altre cellule come se fosse un virus o un batterio. I meccanismi con i quali i prioni causano malattie neurodegenerative sono ancora da chiarire, ma si sa che coinvolgono anche la proteina normale.

Biasini ha in testa un obiettivo ben chiaro: trovare una cura. O, almeno, dare il massimo per riuscirci: «Non posso garantire che ci riusciremo - dice - ma posso garantire che ce la metteremo tutta». I primi anni di ricerca, però, non hanno successo. L’idea è agire non sul prione ma sulla proteina prionica normale, abbassandone i livelli o azzerandola del tutto, ma gli approcci convenzionali non funzionano. «Oltre al nostro, altri gruppi hanno cercato nella struttura della proteina un punto al quale legare un potenziale farmaco, ma nessuno è riuscito a trovarlo». Per Biasini è un momento di sconforto: tutti i ricercatori sanno che il fallimento è parte integrante del percorso della ricerca scientifica, ma viverlo non è mai piacevole. Nel 2017, però, il vento inizia a cambiare, grazie a un incontro casuale che si rivelerà decisamente fruttuoso.

Un aiuto inaspettato dalla fisica teorica

Biasini è rientrato da meno di un anno in Italia, all’Università di Trento, non conosce ancora bene tutti i suoi colleghi. Per esempio, sa poco del lavoro di Pietro Faccioli, fisico teorico che insegna, come Biasini stesso, a un corso di metodi computazionali applicati alla biologia (NdR: oggi Faccioli p all'Università di Milano Bicocca). Però accetta volentieri di supervisionare la tesi di laurea di un suo studente, grazie al quale scopre che il gruppo di ricerca del fisico sta lavorando a una nuova tecnica informatica per studiare il processo che porta le proteine a raggiungere la loro forma definitiva.

«Una proteina nasce come una catenella che, a poco a poco, si ripiega su sé stessa assumendo una conformazione caratteristica» spiega Biasini. «Durante questo processo passa attraverso una serie di forme intermedie transitorie, che nel caso della proteina prionica secondo noi potevano diventare un nuovo bersaglio terapeutico. È nata così una nuova metodologia di analisi chiamata in sigla PPI-FIT, che in poco tempo ci ha permesso di individuare un intermedio promettente della proteina prionica. Abbiamo già individuato alcune molecole in grado di legarsi a questo intermedio, bloccando lo sviluppo della proteina». Il più promettente si chiama SM875: ricordatevi il suo nome!

Storia di famiglia

Se l’incontro con Faccioli è stato fortuito ma tutto sommato facilmente concepibile, molto più insolito è stato quello con l'israeliana Alice Anane, artefice dell’invio delle proteine prioniche nello spazio. Nel 1986, quando ha 15 anni, Anane perde il papà, un noto imprenditore morto a soli 49 anni per una malattia neurodegenerativa a sviluppo molto rapido. Per i medici si tratta di una forma sporadica della malattia di Creutzfeld-Jakob, ma vent’anni dopo, mentre aspetta il suo secondo figlio, la donna scopre che il padre aveva una forma ereditaria della malattia e che lei stessa porta la mutazione genetica che ne ha causato la morte. Per Anane è un momento di grande crisi, ma anche di svolta.

Lascia il lavoro e fonda la Creutzfeld-Jakob Foundation israeliana, contatta tutti i medici del Paese che si occupano della malattia, ma anche il professor George Church di Harvard, uno dei pionieri delle nuove tecniche di editing del DNA. Tramite Church arriva al Centro di medicina rigenerativa della Boston University, dove vengono realizzati le prime colture tridimensionali di cellule di cervello con malattia di Creutzfeld-Jakob, derivate da cellule del sangue sue e di suoi familiari. Ancora, crea una biobanca di campioni biologici di pazienti israeliani, consapevole del vantaggio offerto in termini di ricerca dalla particolare condizione del paese, che presenta una concentrazione relativamente elevata di casi in un’area geografica ristretta.

I suoi contatti con la comunità scientifica internazionale sono strettissimi. Tramite un ricercatore spagnolo, viene a conoscenza della ricerca di Biasini, che ritiene non solo interessante ma potenzialmente utile per lo sviluppo di terapie per la sua malattia. Mentre pensa a come coinvolgerlo in una collaborazione, l’occasione viene offerta da un ultimo, inaspettato intreccio, che coinvolge un’azienda biotech israeliana.

Nello spazio!

L'azienda si chiama Spacepharma: ha sviluppato un mini-laboratorio per ricerche biologiche ottimizzato per il lavoro in condizioni di microgravità (cioè con gravità prossima allo zero) come quelle che si trovano sulla Stazione Spaziale Internazionale e sta proprio cercando un’occasione per testarlo.

È a questo punto che tutti i fili del nostro intreccio convergono. Alice Anane viene a conoscenza degli obiettivi di Spacepharma e pensa subito a Biasini, lo contatta e il gioco è fatto. Perché al ricercatore italiano - che a questo progetto oltre che con Faccioli lavora con i colleghi Jesùs Requena (Università di Santiago de Compostela), Graziano Lolli e Ines Mancini (Università di Trento) e Letizia Barreca (Università di Perugia) - farebbe davvero comodo poter svolgere alcuni esperimenti con la proteina prionica proprio in condizioni di microgravità. «Gli intermedi sui quali lavoriamo sono molto instabili e non riusciamo a studiarne la struttura con le tecniche tradizionali. In particolare, non riusciamo a ottenere dei cristalli da poter analizzare, ma la microgravità dovrebbe favorire la creazione di questi cristalli anche per forme così transitorie», spiega Biasini. In particolare, riuscire a cristallizzare - e quindi ad analizzare in dettaglio - l'interazione tra l'intermedio farmacologicamente promettente della proteina prionica e il composto SM875 già individuato nel laboratorio, permetterebbe di velocizzare lo sviluppo di nuovi, potenziali farmaci.

Nasce così il progetto Zeprion, che si compone di due esperimenti montati su microchip ospitati all’interno del mini laboratorio di Spacepharma con l'obiettivo di studiare proprio questa relazione. La “valigetta” del mini laboratorio è decollata verso la Stazione Spaziale Internazionale il 2 agosto scorso dalla base di Wallops Island, in Virginia (USA), con la missione spaziale robotica di rifornimento NG-19. È poi tornata sulla Terra il 4 settembre: da allora, Biasini e collaboratori sono al lavoro per analizzare i dati raccolti. Come spesso accade, difficilmente questi primi dati saranno risolutivi, ma serviranno a progettare nuovi esperimenti ottimizzati, che grazie a una nuova collaborazione con l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) arriveranno probabilmente sulla Stazione Spaziale Internazionale nel 2025.

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