Lucia De Franceschi: “Il mio lavoro al fianco dei pazienti”

Lucia De Franceschi nasce a Udine 47 anni fa. Arriva a Verona per studiare medicina e, ad appena due settimane dalla laurea, vola negli Stati Uniti alla Harvard Medical School di Boston, nel Dipartimento di Fisiologia, sotto la direzione del Prof. Carlo Brugnara. Un anno e mezzo dopo, torna in Italia per seguire la scuola di specializzazione, collaborando con il Laboratorio di Terapia Genica dell'Ospedale Saint-Louis di Parigi. Torna poi in America, ma rientra alla fine in Italia grazie a un concorso per ricercatrice. Ora è di nuovo a Verona. Il suo laboratorio, al Dipartimento di Medicina dell'Università, si occupa delle malattie che riguardano il globulo rosso e l'eritropoiesi attraverso lo studio del signalling, ovvero il dialogo che avviene tra le cellule. Una tematica e un approccio molto ampio, che si applica anche a patologie rare come la neuroacantocitosi per la quale Lucia De Franceschi è titolare di un progetto Telethon.

Che cos'è la neuroacantocitosi e come si arriva alla diagnosi?

La neuroacantocitosi è una malattia genetica rara scoperta nel secolo scorso negli Stati Uniti dove, per la prima volta, è stata fatta una descrizione di tipo clinico-neurologico e l'associazione con una conformazione alterata dei globuli rossi. Spesso, si arriva alla diagnosi attraverso un percorso a ritroso nella storia del paziente, che di solito arriva con una diagnosi diversa.

Conosce dei pazienti con questa malattia?

Sì, siamo inseriti all'interno di un network internazionale, per cui riceviamo i campioni da studiare da tutto il mondo, e incontriamo i pazienti quando vengono a fare le visite neurologiche di controllo. Tuttavia, molte volte capita che l'occasione di incontro sia virtuale, quando pazienti e familiari ci scrivono delle email per avere informazioni sulla ricerca.

Sente di dover rispondere a delle aspettative quando le riceve?

Quando un paziente mi scrive, la prima reazione è chiedermi "Perché mi fa queste domande?". La mia risposta vuole essere incoraggiante ma non fuorviante. Cerco di fare la massima attenzione nell'offrire una risposta coerente con lo stato di avanzamento della ricerca, senza voler far apparire ciò come una promessa di cura perché nella neuroacantocitosi, e in molte di queste malattie, non abbiamo ancora una cura definita. Il mio entusiasmo per lo stato della ricerca, quindi, non rappresenta ancora il prodotto finale per il paziente.

Come i pazienti contribuiscono alla ricerca?

La rete dei pazienti è fondamentale perché ci permette di progredire nella conoscenza della storia naturale della malattia e di accedere al materiale biologico su cui lavorare per caratterizzare la malattia e per trovare eventuali nuovi target farmacologici e terapeutici. Inoltre, è importante per i pazienti incontrare altri pazienti perché in questo modo possono riconoscere l'uno nell'altro la propria storia e contribuire a sostenere una rete di solidarietà.

Perché è importante studiare malattie genetiche rare come la neuroacantocitosi?

Questi malati hanno oggi un'aspettativa di vita più lunga rispetto al passato e quindi dobbiamo dare delle risposte a dei malati giovani, giovani adulti o, nel caso dell'anemia falciforme, addirittura bambini, che crescono e sopravvivono alla malattia. Trovare nuove molecole o dei trattamenti significa rispondere alla loro richiesta di una migliore qualità di vita, che è fortemente inficiata dalla malattia. Inoltre, quando parliamo di malattie rare parliamo di bassi investimenti sia da parte delle case farmaceutiche sia da parte di settori accademici che trovano più supporti per il fatto che alcune malattie sono più frequenti rispetto ad altre.

Che cosa significa lavorare con fondi Telethon?

Avere la possibilità di lavorare su una tematica che altrimenti non avrebbe avuto "orecchie in ascolto" in quanto meno competitiva rispetto ad altre malattie. Ho partecipato anche alla maratona televisiva, che ritengo molto importante perché fa conoscere l'impegno di noi ricercatori italiani, dipendenti del Ministero dell’Università e della Ricerca, assieme a Telethon e come le nostre idee siano molto competitive nonostante gli scarsi investimenti.

Com'è composto il gruppo che coordina?

Oltre a me c'è una post-doc, con un assegno di ricerca sostenuto da Telethon, una tecnica strutturata e due dottorati.

Si sente responsabile del loro futuro nella mondo della ricerca?

Sì, perché devo fornire loro delle tematiche interessanti e delle ipotesi solide su cui lavorare e perché devo procurare il denaro per portare avanti le ricerche. Inoltre, posso offrire loro occasioni di incontro con gruppi che lavorano sugli stessi temi a livello internazionale e aiutarli a produrre i lavori scientifici, che sono la nostra “moneta di scambio”. Dopo di che, dovranno aprirsi al mondo esterno, che sappiamo essere molto difficile, competitivo e con scarse risorse.

Avverte la sensazione di essere sempre sotto esame?

Chi fa scienza in modo serio accetta il confronto in una comunità scientifica internazionale. Sicuramente, quindi, Telethon chiede che il profilo del ricercatore sia un profilo adeguato a una competizione internazionale. Tuttavia, il banco di prova è la validità dell’ipotesi di ricerca e dei dati del nostro progetto, che la comunità scientifica può valutare attraverso la presenza di pubblicazioni su riviste ad alto impatto scientifico.

Nell’ambito del progetto Telethon, state mettendo a punto un modello di topo affetto da coreoacantocitosi. Perché per la ricerca è importante avere a disposizione un topo con questa malattia?

Perché, in tutte le malattie rare, la disponibilità di un modello murino con la malattia permette di validare le ipotesi. Possiamo quindi progredire nella conoscenza della malattia e capire se ciò che conosciamo fino ad ora è corretto. Inoltre, ci permette di validare degli ipotetici target terapeutici: una molecola che funziona brillantemente in vitro, in un sistema isolato quindi, risulta essere molto meno efficiente in un sistema complesso come l’organismo, dove ci sono più variabili legate alla biologia dei diversi organi e sistemi.

Intervista realizzata da Federica Lavarini, studente del Master in Comunicazione della Scienza presso la SISSA (Scuola Internazionale di Studi Superiori Avanzati).

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