Talassemia: un problema non solo di sangue, ma anche di ossa

Uno studio dell’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano individua un legame molecolare tra anemia e danno osseo, tipico di questa patologia del sangue, e una possibile via per migliorarlo.

Il Team di Giuliana Ferrari: da sinistra Laura Raggi, Samantha Scaramuzza, Giuliana Ferrari, Claudia Rossi, Annamaria Aprile, Giulia Chianella, Mariangela Storto, Francesca Tiboni, Silvia Sighinolfi, Maria Rosa Lidonnici

Nonostante l’apparente “semplicità” della causa – in molti casi la modifica di una singola lettera del DNA – quelle genetiche sono malattie complesse. Accanto alla manifestazione clinica principale, possono essercene altre, in organi diversi: pur secondarie, queste complicanze hanno un impatto rilevante sulla qualità di vita e per questo meritano di essere studiate. Esemplare in questo senso il caso delle talassemie, malattie ereditarie caratterizzate da anemia cronica e dovute a un difetto dell’emoglobina, la proteina dei globuli rossi che trasporta l’ossigeno ai tessuti.

Nel complesso, i difetti ereditari dell’emoglobina sono le malattie genetiche più frequenti al mondo, con un impatto sulla salute variabile in base alla specifica mutazione e alla quantità di emoglobina prodotta: nei casi più gravi l’anemia si manifesta già dai sei mesi e può risultare fatale se non trattata.

Negli ultimi trent’anni qualità e aspettativa di vita sono notevolmente migliorate, grazie al ricorso alle trasfusioni e ai farmaci chelanti che prevengono l’accumulo tossico di ferro. In alcuni casi è possibile curare la malattia con il trapianto di cellule staminali ematopoietiche, purché si trovi un donatore appropriato di midollo osseo, ma negli ultimi anni le prospettive si sono ulteriormente allargate grazie alle terapie avanzate, come la terapia genica e l’editing genetico.

Accanto al ripristino di livelli adeguati di emoglobina ci sono però altri aspetti importanti per migliorare la qualità di vita. Per ragioni ancora poco note, le persone con anemie croniche vanno spesso incontro a problemi ossei tipici dell’età avanzata, come osteopenia e osteoporosi: le loro ossa sono cioè più sottili e fragili, con una maggiore tendenza alle fratture. Comprendere perché questo avvenga è quindi importante per trovare delle strategie per contrastare meglio questo fenomeno potenzialmente invalidante.

È quanto stanno facendo i ricercatori del gruppo dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, guidato da Giuliana Ferrari, Professore Ordinario dell’Università Vita- Salute: tra i primi al mondo a mettere a punto un protocollo di terapia genica per la forma più grave di talassemia beta (vedi i primi positivi risultati descritti su Nature Medicine), sono parallelamente al lavoro per approfondire i meccanismi molecolari associati a questa malattia così complessa, il cui impatto sull’organismo non si limita all’anemia.

Come spiega Annamaria Aprile, ricercatrice project leader del team, «il sangue e le ossa sono due tessuti solo apparentemente distanti. In realtà è proprio all’interno della cavità delle ossa che si trova il midollo osseo, la fonte delle cellule madri del sangue, le staminali ematopoietiche. In questo microambiente le staminali interagiscono con molte altre cellule e fattori. Ci siamo quindi chiesti se i difetti ossei così spesso osservati nei pazienti talassemici potessero causare alterazioni di questo “dialogo” e quindi della cellula staminale ematopoietica».

Dopo che diversi esperimenti condotti nel modello murino della malattia e in cellule di pazienti hanno confermato questa ipotesi, i ricercatori hanno cercato un possibile bersaglio farmacologico su cui agire per ripristinare le interazioni corrette. Si sono così focalizzati su un ormone, il fattore di crescita dei fibroblasti 23 (FGF23), già noto per essere una molecola chiave della regolazione sia del metabolismo osseo, sia dell’eritropoiesi, cioè la formazione dei globuli rossi.

«Quanto più grave era l’anemia, tanto più i livelli di FGF23 erano elevati – continua Aprile -. Abbiamo quindi provato a inibirne la produzione in topi modello di malattia tramite un peptide, cioè una piccola porzione di proteina, che normalmente fa questo nell’organismo. I risultati sono stati incoraggianti: abbiamo osservato sia un aumento della densità ossea sia una migliore qualità dell’osso, con un recupero delle interazioni tra cellule dell’osso e staminali ematopoietiche».

Lo studio, che porta la firma come primo nome proprio di Annamaria Aprile, ha meritato le pagine di Science Translational Medicine e apre prospettive interessanti per il futuro. «È stato un eccezionale lavoro di squadra. Vorrei ringraziare in particolar modo i nostri collaboratori interni dell’Unità di Metabolismo Osseo e i colleghi clinici dell’Ospedale San Raffaele, del Policlinico Ca’ Granda di Milano e dell’Università di Palermo. I problemi ossei nei pazienti talassemici non sono del tutto evitabili con il regime terapeutico attuale, anche quando è seguito scrupolosamente: lo hanno confermato le nostre analisi condotte su 40 pazienti in cura all’Ospedale San Raffaele e al Policlinico Ca’ Granda di Milano. È quello che in gergo si definisce un unmet medical need, un aspetto su cui c’è necessità di lavorare per migliorare la qualità di vita di queste persone. L’accesso al trapianto – e ancora di più alle terapie avanzate – non è affatto scontato e difficilmente in futuro lo sarà per tutti: ecco perché è importante in parallelo lavorare anche su aspetti come questo. Inoltre, è possibile che l’inibizione di FGF23 si riveli una strategia efficace contro il deperimento osseo anche nel contesto di altre patologie».

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