Il gruppo di Vania Broccoli del San Raffaele di Milano è in prima linea per la messa a punto di un approccio di terapia genica con nuovi vettori sempre più sicuri ed efficaci.

«Una cura per la sindrome di Rett è possibile, come ha dimostrato Adrian Bird dell’Università di Edimburgo nel 2007: se uniamo le forze e sosteniamo i laboratori impegnati a studiarla potremmo trovarla in tempi brevi». Parola di Salvatore Franzè, presidente dell’Associazione per la ricerca sulla Sindrome di Rett Onlus, in occasione del mese di consapevolezza sulla sindrome, che si celebra a ottobre. «Pro RETT Ricerca è da sempre promotrice di questa iniziativa - prosegue Franzè - per sensibilizzare l'opinione pubblica sull'urgenza di convogliare le risorse e porre fine, tutti insieme, all'emergenza sociale causata dal malfunzionamento del gene MECP2 responsabile della malattia».

Sulla stessa lunghezza d’onda si pone Vania Broccoli, responsabile del gruppo di ricerca su cellule staminali e neurogenesi del San Raffaele, dove guida una linea di ricerca dedicata a strategie innovative di terapia genica per la sindrome di Rett, che nel 2019 ha ricevuto da Fondazione Telethon un importante finanziamento. «È un momento propizio - sottolinea - per lo sviluppo di nuovi approcci di terapia genica per la malattia e per le prime prospettive di applicazione clinica di questa terapia, anche grazie alla collaborazione tra ricercatori, tra ricercatori e associazioni e tra ricercatori e aziende farmaceutiche».

La sindrome di Rett è una malattia neurologica che rappresenta una delle cause più comuni di grave disabilità intellettuale femminile ed è provocata nella grande maggioranza dei casi da mutazioni spontanee del gene MECP2. «Questo gene codifica per una proteina che, legandosi al DNA, controlla l’espressione di tantissimi geni, in particolare nei neuroni e in altre cellule cerebrali come le cellule della glia» spiega Broccoli. «Se a causa di una mutazione nel gene la proteina corrispondente viene a mancare, si determina una disregolazione dell’espressione genica che provoca un’alterazione generale dell’attività cerebrale, con conseguenze negative sullo sviluppo cognitivo e motorio».

Come ricordato da Franzè, la svolta nella ricerca su nuove strategie terapeutiche per la sindrome di Rett è arrivata poco più di una decina d’anni fa, quando il gruppo di Adrian Bird ha mostrato che nel modello animale della malattia è possibile recuperare anche i sintomi più gravi utilizzando metodi di ingegneria genetica che permettono di riattivare la funzione del gene. «Per la prima volta si è mostrato che anche in casi con sintomi molto severi la riattivazione del gene, negli animali, è sufficiente a un recupero praticamente completo delle funzioni compromesse, che in buona parte sono sovrapponibili a quelle che si manifestano nella malattia umana» afferma Broccoli. Poiché il “trucco” genetico utilizzato nei modelli animali non è applicabile agli esseri umani, si sono sviluppate in vari laboratori nel mondo linee di ricerca su strategie alternative basate sulla terapia genica, con l’obiettivo finale di riuscire a veicolare una copia del gene sano nel cervello dei pazienti, per recuperare la funzione della proteina mancante.

La strada è promettente, tanto che già per l’anno prossimo è in programma l’avvio, negli Stati Uniti, di una prima sperimentazione clinica con un numero molto limitato di pazienti. «Un punto di partenza importante, ma certo non di arrivo perché la strada è tutt’altro che semplice, con almeno tre grandi ostacoli da superare» chiarisce Broccoli. «Primo: trovare il modo più efficiente per veicolare là dove serve, cioè nel cervello, il virus vettore del gene sano. La via intravenosa, per esempio, nell’uomo non è percorribile con i virus terapeutici oggi a disposizione: una possibile alternativa prevede l’inoculazione del vettore nel liquor cerebrospinale che avvolge il sistema nervoso centrale e riempie i ventricoli cerebrali. Secondo: considerato che MECP2 si trova sul cromosoma X, occorre trovare il modo di veicolarne la copia funzionante solo nelle cellule che abbiano il cromosoma X con il gene mutato. Terzo: regolare molto accuratamente l’espressione di questa copia funzionante del gene». Purtroppo, infatti, la proteina MECP2 non provoca danni solo se è assente o scarsa, ma anche se è presente in eccesso, come accade nel caso di un’altra grave malattia neurologica chiamata sindrome della duplicazione del gene MECP2.

È proprio questo uno degli aspetti sui quali insiste di più la ricerca di Broccoli, che alcuni mesi fa ha pubblicato i risultati di un primo studio di terapia genica con gene MECP2 nel topo, in cui si mostra l’efficacia e la sicurezza della “cassetta genica” sviluppata nel suo laboratorio e composta, oltre che dal gene funzionante, da regioni regolatorie che dopo l’inoculazione del vettore permettono di mantenere l’espressione del gene stesso proprio negli intervalli ottimali (né troppo poco né troppo). Dopo il trattamento si è osservato negli animali un sorprendente effetto di recupero di sintomi. «Un altro aspetto sul quale lavoriamo molto è l’ottimizzazione dei vettori, costituiti nel nostro caso da virus adeno-associati» conclude Broccoli, convinto che i risultati del suo gruppo potranno rivelarsi molto importanti per raggiungere quell’obiettivo condiviso dalle associazioni di pazienti, da molti ricercatori - e, aggiunge, dalle aziende farmaceutiche che stanno investendo nel settore - che è la cura della malattia.

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