Sindrome Kabuki: un possibile aiuto dalla meccano-biologia

Il 23 ottobre si celebra la Giornata mondiale dedicata alla sindrome Kabuki. È l’occasione per fare il punto sulla ricerca di Alessio Zippo, che studia la sindrome dal punto di vista molto particolare della meccano-biologia.

Sempre di più gli studi di meccano-biologia

Meccanica e malattie genetiche rare: può sembrare un binomio improbabile e invece è proprio dallo studio delle proprietà meccaniche delle cellule che in futuro potrebbero venire nuove terapie per malattie oggetto della ricerca di Fondazione Telethon. È il caso della sindrome Kabuki, di cui si celebra il 23 ottobre la giornata mondiale: da alcuni anni, il ricercatore Telethon Alessio Zippo, professore di biologia molecolare all’Università di Trento, la studia anche dal punto di vista della meccano-biologia.

Si tratta di una disciplina emergente che cerca di capire in che modo le caratteristiche meccaniche delle cellule e dei loro organelli (per esempio la loro rigidità) e le forze alle quali sono sottoposti contribuiscono allo sviluppo e al differenziamento delle cellule stesse. In altre parole: in che modo segnali di natura meccanica, oltre a quelli di natura chimica, indirizzano la crescita delle cellule e la loro specializzazione.

La sindrome Kabuki

Anomalie del cranio e del volto, ritardo della crescita, disabilità cognitiva e, spesso, sordità, suscettibilità alle infezioni e cardiopatie: sono le manifestazioni principali - spesso molto eterogenee da paziente a paziente - della sindrome Kabuki, una malattia genetica molto rara. Il nome deriva dai tratti peculiari del volto dei pazienti, che ricordano quelli delle maschere utilizzate nel teatro tradizionale giapponese Kabuki.

Nella maggior parte dei casi, a provocare la sindrome sono mutazioni a carico del gene KMT2D e perché la malattia si manifesti basta che sia mutata una sola delle due copie del gene. KMT2D codifica per una proteina (chiamata MLL4) coinvolta nella regolazione dello stato della cromatina, l’insieme più o meno compatto di Dna e proteine che costituisce i cromosomi.

Come un reostato per lampade: regolare la cromatina per regolare i geni

Avete presente quelle lampade delle quali è possibile variare l’intensità luminosa? Ebbene, per i geni succede qualcosa di analogo: ci sono sistemi che permettono di modulare l’intensità con la quale sono espressi e dunque i livelli di produzione della proteina corrispondente. Uno di questi sistemi si basa proprio sul livello di compattamento della cromatina. Se una certa porzione di cromatina è molto compatta, i geni che vi sono contenuti risultano poco espressi o del tutto spenti, perché non possono essere raggiunti dal macchinario cellulare deputato a trasferire l’informazione genetica. Viceversa, i geni che stanno in porzioni più distese di cromatina hanno livelli di espressione maggiori perché questo macchinario cellulare riesce a raggiungerli più facilmente.

«Sappiamo che mutazioni di KMT2D influenzano questi meccanismi, alterando la regolazione dell’espressione di alcuni geni» spiega Zippo. «Alcuni indizi, però, hanno portato a pensare che alterazioni del ruolo di regolatore dell’espressione genica di KMT2D non bastano a spiegare le manifestazioni della malattia e che il gene deve essere coinvolto anche in altro».

Un problema meccanico

L’altro in questione riguarda proprio le proprietà meccaniche della cromatina e, di conseguenza, del nucleo, l’organello cellulare che la contiene. Il nucleo è molto rigido e ha dunque una componente meccanica importante. Inoltre, è strettamente connesso al citoscheletro, un insieme di strutture che danno sostegno alla cellula ed esercitano forze e tensioni, permettendole di cambiare forma e di muoversi. «Studiando in particolare cellule staminali di ossa e cartilagini abbiamo scoperto che quando manca una copia funzionante di KMT2D il nucleo perde la sua rigidità, come se si afflosciasse. Questo fa sì che le cellule non rispondono più in modo corretto ai segnali meccanici che contribuiscono a guidarne il differenziamento, cioè ad assumere tutte le caratteristiche proprie delle cellule di ossa e cartilagini».

Dal problema a una possibile soluzione

I ricercatori hanno quindi individuato una possibile soluzione al problema in una molecola già ampiamente studiata. «Si tratta di un inibitore di una proteina chiamata ATR che funziona proprio come sensore meccanico in grado di segnalare il cambiamento dello stato di tensione del nucleo. Ci siamo chiesti se questo inibitore possa ripristinare le proprietà meccaniche che risultano alterate in caso di mutazione di KMT2D e la risposta è stata positiva. Sia in modelli cellulari in vitro sia in un modello animale abbiamo osservato che il trattamento con l’inibitore di ATR riesce a far riprendere alle staminali della linea osso-cartilagine il proprio percorso di differenziamento». La strada dal modello animale (un pesce) a un’eventuale sperimentazione clinica è ancora lunghissima, ma questi risultati costituiscono senza dubbio un passo importante per sperare di intervenire, un giorno, almeno su alcuni aspetti della sindrome Kabuki.

Gli obiettivi del nuovo progetto di ricerca Telethon

Intanto Zippo e il suo gruppo si preparano a compiere i passi successivi, grazie a un progetto finanziato con l’ultimo bando generale di Fondazione Telethon. «Abbiamo tre obiettivi», spiega il ricercatore:

1 Verificare se il trattamento farmacologico individuato nel pesce può essere un buon candidato per una terapia anche nel topo. Si tratta di un passaggio fondamentale non solo per capire sempre meglio i meccanismi in gioco in un modello più vicino all’essere umano, ma anche di un passaggio obbligatorio per poter passare alla sperimentazione clinica, se i risultati saranno positivi.

2 Verificare se la diversa organizzazione della cromatina che si osserva in caso di mutazione del gene KMT2D avvenga in modo casuale nel genoma o se ci sono zone del genoma più interessate di altre.

3 Partendo da cellule (fibroblasti) donate da pazienti affetti, compiere studi che permettano di valutare l’eventuale associazione tra il tipo di mutazione del gene (perché ne esistono diversi), il tipo di alterazione meccanica corrispondente e l’aspetto clinico del paziente. Questo per capire in che modo diverse mutazioni portano ai diversi quadri clinici che si possono osservare nella sindrome Kabuki.

La ricerca, bene comune

Gli studi di meccano-biologia su una malattia molto rara come la sindrome Kabuki potrebbero avere anche ricadute in ambiti più ampi e in particolare in quello oncologico. Negli ultimi anni, infatti, sta diventando sempre più evidente il coinvolgimento di aspetti meccanici nello sviluppo e progressione di alcuni tumori, oltre che nella diffusione di metastasi. Inoltre, proprio il gene KMT2D è mutato molto di frequente in vari tumori.

«Non si sa ancora se lo stesso meccanismo che abbiamo individuato nella sindrome Kabuki possa avere importanza anche nello sviluppo di un tumore, ma di sicuro le informazioni che raccogliamo su questo gene e sulle proprietà meccaniche delle cellule potrebbero rivelarsi utili anche per lo studio dei tumori» commenta Zippo.

Una disciplina da Nobel

Del resto, siamo solo all’inizio di questo nuovo e promettente ambito di ricerca che è la meccano-biologia. «Finora lo studio delle proprietà meccaniche delle cellule è stato molto limitato sia dalla grande attenzione posta ad aspetti più chimici e biochimici sia dalla mancanza di strumenti per misurare in modo corretto stimoli e risposte meccaniche. Senza dimenticare la grande complessità dei segnali meccanici che, ricordiamo, si basano sulla forza, cioè su una grandezza fisica che oltre ad avere un’intensità ha un verso e una direzione. Osservare questi parametri in un sistema complesso come una cellula o un tessuto non è affatto banale. Molto, però si sta muovendo in questo ambito, come dimostra anche il premio Nobel per la medicina assegnato quest’anno per metà ad Ardem Patapoutian per la scoperta di una nuova classe di sensori in grado di rispondere a stimoli meccanici esercitati sulla pelle o sugli organi interni. Penso che nel giro di una decina d’anni, grazie al lavoro congiunto di biologi, fisici, bioinformatici, vedremo grandi risultati».

Per saperne di più sulla sindrome Kabuki puoi consultare la scheda malattia sul nostro sito. Per entrare in contatto con i familiari di pazienti, puoi inoltre contattare l’Associazione italiana sindrome Kabuki Onlus, una delle Associazioni in rete di Fondazione Telethon.

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