Giornata mondiale malattia di Parkinson: l’importanza delle forme genetiche rare

Nel mondo sono circa 6,5 milioni i pazienti con malattia di Parkinson, su cui Fondazione Telethon in oltre trent’anni ha finanziato 27 progetti di ricerca per oltre 7 milioni di euro. Tra questi, il progetto di Jenny Sassone sul gene PARK2.

Jenny Sassone

C’è un momento davvero emozionante in un’intervista che l’ex pugile Mohammad Alì rilasciò nel 1991 al giornalista Bryant Gumbel, conduttore di uno dei più noti programmi del mattino della tv americana. Alì, nato Cassius Clay e noto come “il più grande” tra i pugili, ha allora 49 anni e da sette ha rivelato di avere la malattia di Parkinson. Nel programma sta seguendo con sguardo serio Gumbel mentre elenca i limiti imposti dal Parkinson. Dopo aver citato gli effetti negativi su movimento e linguaggio, il giornalista passa a quelli sull’espressività del volto, ma a questo punto per qualche secondo tutto cambia. Il viso di Alì, che tutti si aspettavano inespressivo, si allarga in un sorriso radioso e un po’ beffardo. È un’immagine piena di forza, che ricorda immagini di resistenza di altri pazienti illustri, da Papa Giovanni Paolo II all’attore Michal J. Fox, l’intraprendente Marty McFly di “Ritorno al futuro”.

27 progetti di ricerca

oltre 7 milioni di euro investiti

L'IMPEGNO DI FONDAZIONE TELETHON

In una recente intervista rilasciata live al “Washington Post” l’attore ha dichiarato che dal suo punto di vista l’attitudine migliore per affrontare una malattia o un’avversità è l’accettazione, intesa non come rassegnazione, ma come consapevolezza e punto di partenza. «Ok - ha raccontato Fox - ho il Parkinson, che nella mia vita occupa un certo spazio. Però c’è altro spazio, nel quale posso lavorare per trovare nuovi modi per adattarmi alla situazione e rifiorire». Dopo la diagnosi, ricevuta a soli 29 anni, e un lungo periodo segnato da alcolismo e profonda depressione, Fox è rifiorito davvero. Nel 2000 ha dato vita a una Fondazione che porta il suo nome, dedicata alla ricerca sul Parkinson e solo l’anno scorso, trent’anni dopo la diagnosi, si è definitivamente ritirato dalle scene.

Sono circa 6,5 milioni in tutto il mondo i pazienti con malattia di Parkinson, di cui si celebra l’11 aprile la Giornata mondiale di sensibilizzazione. È un numero elevato, cresciuto molto negli ultimi decenni e destinato a crescere sia per i miglioramenti continui nella diagnosi, sia perché è una patologia nella grande maggioranza dei casi legata all’invecchiamento. La diagnosi spaventa ancora molto, perché la malattia è ancora senza una cura, nel senso che non esistono farmaci specifici per prevenire o arrestare la morte delle cellule nervose che la provoca. Allo stesso tempo, però, disponiamo di molti strumenti terapeutici, da vari tipi di farmaci all’esercizio fisico, che possono aiutare i pazienti a tenere i sintomi sotto controllo, mantenendo a lungo una buona qualità di vita. E la ricerca non si ferma: compresa quella sulle forme genetiche rare della malattia, che può dare informazioni preziose non solo per i pazienti colpiti da quelle forme, ma per tutti i pazienti. In oltre trent’anni, Fondazione Telethon ha finanziato 27 progetti di ricerca per oltre 7 milioni di euro.

I sintomi più comuni

Nella sua forma classica, che riguarda circa nove casi su dieci, la malattia si manifesta dopo i 60 anni e in modo sporadico, senza che ci siano altri pazienti in famiglia. Un caso su dieci è invece ereditario e spesso si manifesta già in età giovanile. Il sintomo più noto è il tremore a riposo, al quale si aggiungono un notevole rallentamento dei movimenti, soprattutto del cammino, e una caratteristica postura, con il corpo leggermente piegato in avanti, che fa aumentare il rischio di cadute. I disturbi del movimento possono essere accompagnati da sintomi che interessano il sistema nervoso autonomo, come una forte stitichezza, l’incontinenza, la tendenza agli svenimenti quando ci si alza dal letto o da una sedia. Inoltre, posso esserci difficoltà cognitive e disturbi come ansia e depressione. Le manifestazioni variano molto da paziente a paziente, tanto che secondo molti esperti sarebbe più corretto parlare di parkinsonismo. E varia anche la velocità di progressione: molto rapida in alcuni pazienti e più lenta in altri.

Le cause

Tra i progetti di ricerca finanziati da Fondazione Telethon vi è quello coordinato da Jenny Sassone, ricercatrice dell’Università Vita-Salute San Raffaele, attiva presso l’Unità di ricerca in Neurofarmacologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, dove si occupa dello studio dei meccanismi molecolari alla base di malattie neurodegenerative come la malattia di Parkinson. «Sappiamo che a causarla è la morte di un gruppo di neuroni produttori di dopamina (una delle molecole usate dalle cellule nervose per comunicare tra di loro) localizzati in una piccola regione profonda del cervello. Non è ancora chiaro, però, quali meccanismi provocano questa morte. Conoscerli è fondamentale per sviluppare farmaci capaci di proteggere i neuroni».

O meglio: sappiamo che nelle forme genetiche tutto parte, appunto, dai geni, cioè da mutazioni in singoli geni specifici. «Oggi ne conosciamo diversi coinvolti nell’insorgenza della malattia. Tra i più importanti, troviamo il gene Gba, il gene Lrrk2 e il gene Prkn o Park2, mutato in almeno il 50% nei casi con esordio sotto i 45 anni e nel 75% dei casi con esordio sotto i venti», spiega Sassone. Che di questi geni, e di tanti altri aspetti della malattia, ha parlato con noi di Fondazione Telethon il 28 marzo scorso, in un live sul nostro canale Instagram.

Le cose si complicano nelle forme sporadiche, delle quali non sappiamo ancora perché insorgano. L’ipotesi è che tutto dipenda da una particolare combinazione di fattori genetici di predisposizione e fattori ambientali. «Alcuni pesticidi, per esempio, sono stati chiaramente associati a un aumento del rischio di sviluppare la malattia, tanto che il loro uso è stato bandito in molti paesi». Negli ultimi anni, inoltre, si sta facendo strada l’ipotesi che la malattia di Parkinson possa avere origine non a livello cerebrale ma a livelli intestinale, dove comincerebbe ad accumularsi una proteina che solo in un secondo momento, attraverso il nervo vago, arriverebbe al cervello.

L’importanza dello studio delle forme genetiche rare

Proprio perché la malattia è così eterogenea e complessa è fondamentale disporre di modelli di studio semplificati ed è proprio così che possono considerate le forme più rare, di chiara origine genetica. Studiare le forme genetiche rare permette di porsi domande molto puntuali, cercando risposte in un ambito relativamente più ristretto e dunque più facile da esplorare. Domande come: cosa succede di sbagliato in una cellula che ha una certa mutazione? C’è un’alterata produzione di alcune proteine? Quali proteine? Che ruolo hanno? Si attivano dei meccanismi di morte cellulare? Quali meccanismi? Trovare le risposte a queste domande può portare informazioni utili anche in generale. «È quanto accaduto per esempio con la scoperta del primo gene associato a una forma ereditaria di Parkinson, presente in un piccolo gruppo di pazienti (poche decine nel mondo). Era il gene codificante per una proteina chiamata alfa-sinucleina, il cui studio ha permesso, e continua a permettere, di capire molto sulla forma sporadica, ma molto più diffusa, della malattia» spiega Sassone.

Grazie al sostegno di Fondazione Telethon, nel suo laboratorio Jenny Sassone si occupa di un altro gene coinvolto in una forma giovanile ereditaria di Parkinson: Park2. «Abbiamo individuato un farmaco che in modelli animali con mutazioni di Park2 sembra in grado di arrestare la morte dei neuroni produttori di dopamina e ipotizzato che questa morte avvenga tramite un processo chiamato necroptosi» spiega la ricercatrice. «Ora vogliamo valutare se altri farmaci hanno lo stesso effetto protettivo e assicurarci che sia davvero la necroptosi il processo coinvolto».

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