Deficit di alfa-1 antitripsina: individuato un nuovo possibile bersaglio terapeutico

In occasione della giornata europea di sensibilizzazione sulla malattia, il ricercatore Pasquale Piccolo racconta il lavoro che ha permesso di individuare un meccanismo molecolare alla base dello sviluppo di fibrosi epatica.

Il deficit di alfa-1 antitripsina è una malattia genetica caratterizzata dallo sviluppo di disturbi polmonari ed epatici che possono essere anche gravi. Tra le sue possibili conseguenze c’è la fibrosi del fegato, cioè la sostituzione di tessuto epatico danneggiato con tessuto fibroso che non svolge più le funzioni tipiche delle cellule epatiche: «Una condizione che può manifestarsi anche in altre malattie del fegato e, più in generale, può riguardare anche altri organi» precisa Pasquale Piccolo, ricercatore dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina di Pozzuoli (Tigem). «Per questo è fondamentale descrivere i meccanismi molecolari alla base di questa condizione, primo passo necessario per sviluppare un giorno terapie specifiche».

Esattamente quello che hanno fatto Piccolo e Nicola Brunetti-Pierri insieme ai loro collaboratori, con un lavoro condotto con cellule di pazienti e con un modello animale di deficit di alfa-1 antitripsina i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PNAS. «Il nostro primo obiettivo era cercare molecole che potessero rivelarsi utili marcatori per monitorare in maniera non invasiva l’andamento della malattia. A questo scopo ci siamo concentrati sull’analisi dei livelli di alcune molecole che sono spesso significative in questo senso, in particolare un gruppo di Rna con funzioni regolatorie chiamati microRna», racconta Piccolo. Come spesso accade nella ricerca scientifica, però, questa prima analisi non ha portato ai risultati sperati, ma ha aperto la strada ad altre prospettive.

«Abbiamo osservato che nel modello animale con le mutazioni responsabili della malattia ci sono livelli di un microRna chiamato miR-34 molto più elevati che negli animali di controllo, e che questi livelli elevati sono associati a fibrosi del fegato». Ma attenzione: non significa che il microRna sia responsabile della fibrosi. Anzi, “spegnendo” la sua espressione con un sofisticato sistema genetico, i ricercatori hanno mostrato che questa si sviluppa in modo più precoce, a indicare che probabilmente miR-34 svolge un ruolo protettivo nei confronti della fibrosi stessa. Con una serie di altri esperimenti, i ricercatori hanno chiarito tutto il percorso molecolare che lega miR-34 alla fibrosi e che coinvolge molte altre molecole, un possibile bersaglio per lo sviluppo di nuove terapie contro la fibrosi epatica.

Un aspetto interessante di questo lavoro è il fatto che lo stesso meccanismo sembra attivo anche in caso di fibrosi epatica causata da altri fattori di origine genetica o acquisita. «E alcuni dati preliminari ci fanno pensare che abbia un ruolo nello sviluppo della fibrosi anche in altri organi, a dimostrazione di quanto la ricerca sulle malattie genetiche rare possa avere ricadute molto ampie anche su altre condizioni».

A fronte di questi risultati, in occasione della giornata europea di sensibilizzazione sul deficit di alfa-1 antitripsina che si è celebrata il 25 aprile ricordiamo quindi l’importanza della ricerca, ma anche dell’attenzione che deve essere riposta sulla malattia. «I suoi sintomi principali come enfisema, bronchite cronica, asma, problemi epatici non legati a virus o agenti esogeni, panniculiti, vasculiti e altro, spesso non vengono approfonditi nel loro aspetto genetico» afferma Nuccia Gatta, presidentessa dell’Associazione Alfa1at onlus. «Per questo, pur essendo il disordine genetico più diffuso, il deficit di alfa-1 antitripsina rimane ancora uno dei meno diagnosticati».

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