Michele De Luca dell'Università di Modena e Reggio Emilia racconta a che punto siamo con la medicina rigenerativa e del suo recente finanziamento Telethon su una rara forma di displasia ectodermica.

Fuori dai laboratori di ricerca e dalle aule universitarie le hanno chiamate spesso “cellule bambine”, quasi un vezzeggiativo che sottende le grandi aspettative riposte in loro: sono le staminali, cellule ancora immature che, dietro opportuni stimoli, possono dare origine a “figlie” più specializzate. Le cellule staminali sono attrici protagoniste dello sviluppo di ciascun individuo e della riparazione dei danni ai tessuti: ecco perché da decenni sono oggetto di studio in tutto il mondo per capire se e come si possano sfruttare per riparare o ricostruire tessuti danneggiati in conseguenza di traumi o di patologie. Ma quali sono oggi le reali applicazioni cliniche delle staminali?

Ne abbiamo parlato con Michele De Luca, professore di Medicina rigenerativa all’Università di Modena e Reggio Emilia, tra i principali esperti al mondo del settore nonché vincitore di uno dei finanziamenti assegnati attraverso l’ultimo bando Telethon per la ricerca extramurale. «Di queste cellule si parla molto, talvolta anche a sproposito purtroppo: è importante innanzitutto chiarire che le staminali non sono tutte uguali, ne esistono tipologie diverse che vanno conosciute a fondo prima di ipotizzarne un utilizzo a scopo terapeutico. In questo è fondamentale la ricerca di base, che ci consente di studiarne il comportamento biologico, la regolazione, le caratteristiche specifiche. Non è un caso, infatti, che le cellule staminali finora impiegate in ambito clinico siano quelle che conosciamo meglio: le ematopoietiche e le epiteliali, che danno origine rispettivamente agli elementi del sangue e agli epiteli di rivestimento, tra cui la pelle. Come spesso accade nella scienza, si è partiti dai casi più “semplici” da affrontare: sangue ed epiteli sono tessuti poco complessi dal punto di vista strutturale, oltre che di facile accesso nel momento in cui vogliamo sostituirli. È intuitivo capire che tessuti come il muscolo o il cervello sono assai più complicati non solo nella loro architettura, ma anche da raggiungere: naturalmente ci sono numerosi studi anche in questo senso, ma la strada per arrivare a delle terapie disponibili è ancora lunga».

Risale al 1957 il primo trapianto di cellule staminali ematopoietiche, una pratica ormai ampiamente consolidata per la cura dei tumori del sangue o di malattie genetiche quali la beta-talassemia e le immunodeficienze primitive. E proprio questo tipo di staminali sono quelle su cui si sono basati i primi farmaci di terapia genica, che hanno permesso di coniugare al potere rigenerativo di queste cellule anche la possibilità di veicolare geni terapeutici: la prima a essere approvata, nel 2016, è stata Strimvelis, terapia genica per la cura dell’Ada-Scid nata nei laboratori dell’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano, seguita quattro anni dopo da Libmeldy, per la cura della leucodistrofia metacromatica.

Sul fronte invece delle cellule staminali epiteliali, porta la firma proprio di Michele De Luca e della sua storica collaboratrice Graziella Pellegrini la prima terapia a base di cellule staminali autorizzata in Europa: disponibile dal 2015 con il nome di Holoclar, è indicata per riparare la cornea ed evitare così la perdita della vista nei casi in cui il danno da ustioni termiche o chimiche sia a carico delle cellule staminali limbari (o limbus), per il quale il trapianto di cornea è inefficace. A produrre il farmaco è Holostem Terapie Avanzate, spin off dell’Università di Modena e Reggio Emilia situata presso il Centro di Medicina Rigenerativa “Stefano Ferrari”, diretto proprio da De Luca. «Da oltre trent’anni studiamo come utilizzare le cellule staminali epiteliali per la cura delle grandi ustioni e nel tempo abbiamo applicato queste conoscenze anche a malattie rare quali il piebaldismo, l’ipospadia posteriore, o forme gravi di vitiligine. Parallelamente, proprio come avvenuto nel caso delle staminali ematopoietiche, ci siamo chiesti come fare in quei casi in cui non basta trapiantare delle cellule staminali per riparare un danno, perché a causa di un difetto genetico le staminali stesse sono malate: è il caso dell’epidermolisi bollosa, in cui la cute va incontro, spontaneamente o in seguito a traumi minimi, a scollamento e formazione di bolle. Le forme più gravi sono altamente invalidanti, addirittura incompatibili con la vita in certi casi: la risposta è arrivata dalla terapia genica».

Nel 2006 sono stati pubblicati i risultati del primo intervento di successo su un paziente affetto dalla forma giunzionale di questa malattia. Le cellule staminali prelevate dall’epidermide del paziente e poi corrette geneticamente con un vettore virale contenente una versione sana del gene difettoso sono state fatte crescere in laboratorio: i lembi di epidermide così ottenuti sono poi stati trapiantati sulle gambe del paziente e hanno permesso di ricostituire pelle sana nei punti più propensi a infettarsi. L’anno successivo, però, l’Europa ha introdotto dei criteri molto stringenti per la produzione delle terapie avanzate: «questo non soltanto ha bloccato il prosieguo della sperimentazione - commenta De Luca - ma ci ha costretto a rivedere completamente il nostro lavoro. Abbiamo speso i successivi 10 anni per trovare le risorse e mettere in piedi un centro che rispondesse a tutti i criteri di qualità richiesti per produrre queste terapie innovative. Ma questo sforzo titanico ha pagato: nel 2017 abbiamo pubblicato su Nature i risultati del trattamento di un bambino siriano affetto da epidermolisi bollosa a cui siamo riusciti a ricostruire oltre l’80% della pelle. Un risultato che, insieme a quelli ottenuti sul paziente del 2006 e su un altro paziente adulto, hanno convinto le autorità regolatorie europee ad autorizzare una sperimentazione di fase 2-3 finalizzata alla registrazione della terapia. Lo studio coinvolgerà, oltre all’Italia, altri Paesi europei e dovrebbe partire entro l’estate. Stiamo inoltre lavorando per avviare, auspicabilmente all’inizio del 2022, uno studio clinico di fase 1-2 su un’altra forma, quella distrofica da deficit del collagene 7, per la quale abbiamo dovuto rivedere la struttura del vettore virale per rendere più efficace la correzione». Naturalmente, accanto alla ricerca clinica, anche quella di base non si ferma mai: una sfida particolare la pongono le malattie genetiche dominanti, dove il difetto porta alla produzione di una proteina non funzionante. In questo caso non serve fornire una versione sana del gene come fatto finora, ma occorre “spegnere” in qualche modo quello difettoso. Un aiuto in questo viene da CRISPR-Cas9, il sistema di editing genetico premiato lo scorso anno con il Nobel e che consente di apportare modifiche puntuali direttamente sul Dna. Ed è proprio questo strumento che De Luca e il suo team sfrutteranno nel progetto appena finanziato da Telethon per studiare la sindrome EEC, una rara forma di displasia ectodermica. «Questa sindrome è dovuta a difetti in p63, un gene fondamentale per lo sviluppo e il mantenimento di diversi tessuti di rivestimento tra cui la pelle e la cornea. Uno degli aspetti più invalidanti è senza dubbio la perdita progressiva della vista, come conseguenza della lenta ma continua distruzione delle cellule staminali responsabili dell’integrità della superficie oculare. Tuttavia, p63 non è un gene che può essere “spento e basta” senza provocare conseguenze dannose: dobbiamo quindi approfondire meglio in biopsie di pazienti i meccanismi biologici alla base della malattia, per valutare se attraverso un approccio di editing genetico applicato alle cellule staminali dell’epitelio oculare sia possibile contrastare il processo degenerativo». 

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