Atrofia ottica dominante: un approccio terapeutico è possibile

Il ricercatore Telethon Luca Scorrano dell'Università di Padova ha firmato da poco uno studio che dimostra che il recupero della vista è possibile.

Il 13 settembre è iniziata in tutto il mondo la settimana di sensibilizzazione sulle malattie mitocondriali, un gruppo di patologie di origine genetica piuttosto eterogenee ma accomunate dal fatto che alla base dipendono da un malfunzionamento delle centrali energetiche delle cellule, i mitocondri. 

Tra i ricercatori Telethon storicamente impegnati nello studio di questi speciali organelli e delle malattie -  genetiche e non - causate dal una loro disfunzione c’è Luca Scorrano, professore ordinario di Biochimica all’Università di Padova e già direttore dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) fino allo scorso luglio. Dal 2003, quando è entrato a far parte dell’Istituto Telethon Dulbecco, Scorrano studia l’atrofia ottica dominante, una malattia mitocondriale causata da mutazioni nella proteina OPA1. L’atrofia ottica dominante porta progressivamente alla perdita della vista a partire dall’infanzia ed è attualmente incurabile. Ma uno studio da poco pubblicato dal suo gruppo su Nature Communications dimostra che un approccio terapeutico è possibile ed efficace.

«Quando 17 anni fa, grazie al sostegno della Fondazione Telethon, abbiamo iniziato a studiare l’atrofia ottica dominante, sapevamo solo che OPA1 era il gene mutato in questa malattia. Per anni ne abbiamo studiato a fondo il ruolo e chiarito il contributo essenziale nel determinare la forma e il funzionamento dei mitocondri. Ciò nonostante, le domande fondamentali - come si passa da una mutazione in una proteina dei mitocondri alla perdita della vista? Come possiamo curare l’atrofia ottica dominante? - rimanevano senza risposta. Per vedere, infatti, dobbiamo trasmettere i segnali nervosi dalla rètina alla zona del cervello che li elabora in immagini. Le cellule gangliari della retina sono responsabili della trasmissione di questi impulsi nervosi e sono proprio quelle colpite nell’atrofia ottica dominante. Queste cellule si possono immaginare come un essere umano, con un tronco che noi chiamiamo ‘soma’ situato nella retina, e delle lunghissime ‘braccia’, gli assoni, che raggiungono un centro nervoso nella metà di cervello opposta a quella dell’occhio di partenza - spiega Scorrano. Ma cosa c’entrano i mitocondri con la vista? Per trasmettere i segnali, tutte le cellule nervose, comprese quelle gangliari della retina, formano sinapsi, la cui funzione richiede l’energia prodotta dai mitocondri. Per questo i mitocondri che vengono ‘assemblati’ nel soma, percorrono grandi distanze lungo l’assone fino alle sinapsi. Quando OPA1 è mutata, la cellula percepisce che i mitocondri non funzionano più bene e attiva l’autofagia, un processo deputato a ripulirla dai suoi componenti danneggiati. Il problema è che nell’atrofia ottica dominante la troppa autofagia ‘intrappola’ i mitocondri nel soma, impendendo loro di entrare nell’assone».

Sulla base di questa scoperta, i ricercatori padovani hanno provato a liberare i mitocondri dalla loro trappola nel soma riducendo il processo dell’autofagia e hanno valutato se così facendo riuscissero a contrastare la perdita di vista. La dott.ssa Marta Zaninello, autore principale dello studio, ha inattivato l’autofagia in topi modello di atrofia ottica dominante. Il risultato è stato quasi stupefacente: bloccando l’autofagia gli animali hanno dimostrato un totale recupero della capacità visiva.

«Il prossimo passo - spiega Scorrano - sarà valutare se farmaci che riducono l’autofagia sono efficaci nel modello preclinico di atrofia ottica dominante. Abbiamo già dei candidati e grazie anche all’ultimo finanziamento ottenuto da Telethon contiamo di testarli al più presto. In questa malattia la perdita di vista è progressiva: pensiamo quindi che intervenendo precocemente sia possibile rallentarne significativamente il decorso. Peraltro, le cellule retiniche colpite sono facilmente raggiungibili dai farmaci rilasciati lentamente e per lunghi periodi tramite impianti intravitreali di dispositivi biocompatibili, già utilizzati nella pratica clinica. Purtroppo la pandemia da coronavirus ha notevolmente rallentato il nostro lavoro: non solo non siamo potuti entrare in laboratorio per mesi, ma abbiamo anche avuto un grave imprevisto causato delle decisioni del governo per fronteggiare l’emergenza sanitaria. La ricercatrice brasiliana che avevamo reclutato per lavorare proprio su questo progetto non riesce infatti a ottenere il visto per venire in Italia, unico paese europeo che al momento non emette visti per cittadini brasiliani. Grazie alle misure messe in campo dalla Fondazione Telethon, potremo però ammortizzare i mesi di stop: speriamo di recuperare il tempo perduto e dare una risposta concreta ai pazienti e alle loro famiglie».

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