La terapia genica sviluppata negli Istituti Telethon è l’unica cura per tanti bambini ma negli ultimi tempi l’industria farmaceutica sta disinvestendo ritenendo questo ambito troppo poco remunerativo. Telethon ha quindi deciso di entrare in prima linea nella fase di produzione e distribuzione di questi farmaci. Ne parliamo con Francesca Pasinelli, direttore generale di Fondazione Telethon.

Francesca Pasinelli, Direttore Generale Fondazione Telethon

Quando nel 2016 la Commissione europea ha approvato Strimvelis, la terapia genica per la rara immunodeficienza Ada-Scid nata nei laboratori dell’Istituto San Raffaele Telethon di Milano e sviluppata da GlaxoSmithKline (GSK), la sensazione è stata proprio quella di una promessa mantenuta.

Per la prima volta un farmaco basato sulla correzione genetica delle cellule staminali del sangue veniva reso disponibile nell’Unione Europea a tutte le persone che potenzialmente potevano beneficiarne: bambini nati con un difetto genetico che impedisce al loro sistema immunitario di formarsi, lasciandoli in balia delle infezioni. Un traguardo storico: la medicina di precisione trovava una delle sue prime applicazioni concrete. A fare da apripista Fondazione Telethon, un’organizzazione non profit dedicata a malattie poco interessanti per l’industria, che invece è riuscita a ribaltare il paradigma grazie a una ricerca scientifica ad alto tasso di innovazione.

Negli anni successivi altre terapie geniche sono arrivate sul mercato per diverse malattie. Accanto al loro potenziale terapeutico, è emerso in maniera prepotente anche il problema della sostenibilità economica. Lo scenario è cambiato e anche Fondazione Telethon sta facendo i conti con un’evoluzione inevitabile: ne parliamo con il direttore generale Francesca Pasinelli.

Nell’ultimo anno è successo qualcosa che ha posto una nuova sfida alla Fondazione. Di che si tratta?

La scorsa primavera Orchard Therapeutics, l’azienda che nel 2018 ha acquisito da GSK la licenza per commercializzare Strimvelis, ha annunciato di voler disinvestire nel campo delle immunodeficienze primitive. Oltre che sulla terapia genica per l’Ada-Scid, che rischiava il ritiro, questa decisione significava che un’altra terapia salvavita, quella per la sindrome di Wiskott-Aldrich, sarebbe rimasta “nel cassetto”, nonostante dati molto promettenti. Per quanto dolorosa, la notizia non è stata inaspettata: era soltanto questione di tempo.

Perché queste terapie sono economicamente poco sostenibili?

Non stiamo parlando di farmaci tradizionali, molecole chimiche prodotte automaticamente in grandi quantità e conservate a lungo senza esigenze particolari. Si tratta di farmaci “vivi”, in cui un virus manipolato in laboratorio diventa un veicolo di un gene terapeutico per le cellule del paziente. Pur evitando i dettagli tecnici, è intuibile come i costi di sviluppo non siano paragonabili a quelli dei farmaci da banco. Se poi sono indicati per malattie che riguardano solo una manciata di pazienti l’anno, l’azienda produttrice è costretta a chiedere un prezzo elevato per ripagare i propri investitori. Quello di Orchard non è un caso isolato: anche un’altra azienda ha di recente ritirato dal mercato europeo due terapie geniche approvate per le quali però non era riuscita a negoziare un prezzo soddisfacente. Negli Stati Uniti, dove prevalgono le assicurazioni private, sono invece riusciti a spuntare un prezzo molto elevato.

Dobbiamo quindi rinunciare al supporto dell’industria farmaceutica?

Le alleanze industriali sono state essenziali finora per trasformare in cura le terapie nate nei nostri laboratori e mantenere così la promessa. A metà degli anni Duemila, di fronte ai primi risultati positivi sui bambini con Ada-Scid, ci siamo resi conto che non potevamo fermarci alla pubblicazione di quei brillanti risultati sperimentali. La terapia doveva diventare disponibile nel tempo, per tutti i pazienti. Nel frattempo, gli esperimenti ci dicevano che la terapia genica poteva essere applicata con successo anche ad altre malattie genetiche. Abbiamo fatto un investimento importante, ad alto rischio, per costruire una piattaforma di sviluppo. Bisognava produrre i vettori virali secondo standard di qualità elevati, acquisire competenze in ambito clinico e regolatorio. Lo abbiamo fatto bene visto che nel 2010 un colosso come GSK ha colto le potenzialità della nostra piattaforma di trasferimento genico e ha siglato con noi un’alleanza per portarle sul mercato. Fin dall’inizio, però, temevamo che prima o poi l’interesse si sarebbe spostato verso malattie più diffuse, come per esempio i tumori.

Cosa fare, dunque, in questa nuova fase?

La nostra missione è il nostro faro, non cambia. È inaccettabile che terapie in grado di cambiare la vita di tanti bambini non siano disponibili solo per motivi economici. Abbiamo quindi deciso di entrare in prima linea nella fase di produzione e distribuzione di questi farmaci, iniziando da Strimvelis, la terapia genica per Ada-Scid. Si tratta di un’impresa complessa e onerosa, un’urgenza che vogliamo condividere con chi ci sostiene e crede nella nostra missione per chiedere un supporto che possa aiutarci ad affrontare questa sfida così importante. Al contempo i nostri ricercatori continueranno a lavorare per innovare la tecnologia, così da ridurre costi e tempi di sviluppo, come avviene da sempre in ogni ambito. Siamo consapevoli che non possiamo farcela da soli e che serve la collaborazione e il dialogo tra tutti gli attori in gioco - industria, accademia, enti regolatori. Nessuno però deve essere lasciato indietro, ogni vita conta e ha diritto a un trattamento, soprattutto se esiste.

C’è speranza che tutto questo possa accadere?

Come disse Vàclav Havel, il primo presidente della Cecoslovacchia unita, «la speranza non è per nulla uguale all’ottimismo. Non è la convinzione che una cosa andrà a finire bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso indipendentemente da come andrà a finire». È proprio questo il caso: siccome per noi ha molto senso, non possiamo che essere speranzosi!

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