Racconta il Vicepresidente della Fondazione: «Impegnarmi per Telethon è la possibilità di saldare il debito che ho con la vita. Il debito che ho assunto quando mio figlio è scomparso»

Ai primi 30 anni della sua storia, Fondazione Telethon ha abbinato sei parole chiave, sei concetti che la raccontano e la rappresentano: impegno, sfida, ricerca, cura, futuro e speranza.

Ad uno dei nostri pilastri, storico membro del Cda, il vicepresidente Omero Toso, abbiamo chiesto di raccontare cosa significhino per lui impegno e sfida. Perché Omero Toso è stato uno dei primi a raccogliere quella sfida, a farsi carico di quell’impegno, nel 1988, quando era presidente della sezione Uildm di Bolzano. Proprio dall’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare, venne coinvolto nella creazione di quel progetto che è diventato la Fondazione Telethon. Un’avventura nata in un’Italia diversa, in cui le malattie genetiche erano sconosciute, la ricerca in quel settore praticamente non esisteva e coinvolgere gli italiani a donare per tutto questo sembrava un’impresa folle. Ma la forza di un papà può essere inarrestabile e da allora quella di Telethon è diventata la sua missione.

Fondazione Telethon è per lei una vera e propria compagna di viaggio. Come è entrata nella sua vita?

«Attraverso mio figlio. Davide aveva la distrofia muscolare di Duchenne. A quel tempo abitavo a Bolzano e non esisteva alcun supporto a questa malattia. Per questo, tra il 1988 e il 1989 ho aperto la sezione Uildm di Bolzano. Tra le varie attività, organizzavo convegni scientifici. In uno di questi, chiesi di partecipare alla signora Lina Chiaffoni, vicepresidente nazionale di Uildm. Proprio in quel periodo, l’AFM Téléthon - Association Française contre les Myopathies, l’aveva contattata per capire se si potesse realizzare una maratona televisiva di raccolta, un Telethon, anche in Italia. Così, per la prima edizione di Telethon, con la sezione di Bolzano, ci siano mobilitati per la raccolta di fondi».

E il risultato di quella prima maratona fu un trionfo.

«Un successo incredibile. Sia come raccolta che sotto l’aspetto sociale. La ricaduta che ha avuto sulle persone con distrofia muscolare è stata enorme. Era un po’ come se, per la prima volta, fossero state riconosciute, a livello nazionale, la loro esistenza e le loro necessità. Si stava aprendo uno spiraglio nel muro che copriva questa malattia. Parliamo di anni in cui io, che mandavo Davide in vacanza in colonia, venivo visto come un folle; anni in cui i genitori avevano timore e remore nell’esporsi mediaticamente».

E la ricaduta su di lei?

«È stata enorme. Ho capito che Telethon era la vera speranza per le persone con una malattia neuromuscolare. Quindi ho deciso di scrivere una lettera alla signora Susanna Agnelli (primo presidente di Telethon n.d.r.): ho preso carta e penna, per raccontare alla signora la felicità, la speranza e le altre emozioni con cui mio figlio Davide aveva accolto l’evento Telethon che aveva dato luce e visibilità a tanti ragazzi come lui. Lei mi rispose con queste parole: “Se Telethon ha fatto sorridere anche una sola volta suo figlio, ha raggiunto il suo obiettivo”. E quando, nell’aprile del ’92, si è costituito il Comitato Telethon, Susanna Agnelli si è ricordata della nostra corrispondenza e, attraverso Lina Chiaffoni, mi ha invitato a far parte del Cda, come rappresentante dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare».

Da allora è cominciato un percorso fatto d’impegno.

«Un impegno forte determinato, quasi aggressivo. In Telethon, io come genitore ho visto uno strumento per sconfiggere l’impotenza che provava di fronte alla malattia del figlio. Vedevo, se non la soluzione, la possibilità di trovarla, attraverso la ricerca. La strada per trasformare rassegnazione e solitudine in speranza. L’ho visto negli occhi di Davide. E quell’emozione ha spinto, e spingerà sempre, la mia volontà di far nascere anche negli altri questa energia».

Non ha mai avuto, in questi anni, la sensazione che l’impegno potesse essere “troppo”?

«No. Per un motivo molto semplice. In questo impegno trovo la mia essenza, il mio essere, la strada per fare avere ad altri ragazzi quello che Davide non ha avuto: una vita “normale”. Impegnarmi per Telethon è la possibilità di saldare il debito che ho con la vita. Il debito che ho assunto quando mio figlio è scomparso».

Un impegno che ha significato accettare una sfida.

«Nei giorni seguenti alla prima maratona, andai nella sede di Telethon a Roma. C’erano due giovani signore, letteralmente sommerse da scatoloni di bollettini postali, che lavoravano incessantemente per registrare le donazioni. Guardandole ho capito cosa era quella sfida e che avevamo vinto la prima battaglia. Allora, infatti, durante la diretta tv, si facevano promesse di donazione, che poi gli italiani avrebbero dovuto mantenere. Eravamo andati oltre: avevamo raccolto più di quanto era stato promesso. E, in questi 30 anni, ogni persona che lavora in Fondazione Telethon lavora con questa volontà di accettare e vincere quella sfida».

Al di là del dato della raccolta e dei risultati scientifici, quali sono i traguardi raggiunti dalla Fondazione?

«Telethon ha indirizzato la ricerca verso un settore in cui c’era poco o nulla; ha parlato alla gente di malattie che nessuno conosceva; ha dato visibilità e diritto di parola a persone che sembrava non esistessero. Ha mostrato agli italiani come impegno, rigore, trasparenza e valorizzazione del merito possano essere le leve per raggiungere risultati straordinari. Mettere a punto terapie innovative che sconfiggono malattie mortali, creare centri clinici per la presa in carico del paziente a 360 gradi, coinvolgere le persone in una grande sfida collettiva, tutto questo è un piccolo miracolo italiano. Siamo partiti senza sapere dove potessimo arrivare, mossi ma con la ferma visione della meta a cui arrivare che è quella di cercare di sconfiggere le malattie genetiche e dalla consapevolezza che con i giusti strumenti ogni traguardo è possibile».

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