Ha scoperto che l’anagramma del suo nome è “adoro insegnare”. Non è un caso: come ama ripetere, «è dagli studenti e dai giovani che si impara di più». Professore ordinario di Pediatria all’Università Federico II di Napoli, dove dirige anche il dipartimento clinico di Pediatria, Generoso Andria ha dedicato la sua vita alle malattie genetiche rare. Studiare medicina è stata una scelta “di famiglia”: suo padre era medico e desiderava così tanto che il figlio seguisse le sue orme che decise che l’ultimo dei sue nove nomi fosse quello del santo protettore dei medici, Ciro. «Arrivato il momento di scegliere cosa studiare all’università - ricorda Andria - l’influenza paterna ha prevalso, cosa di cui peraltro non mi sono mai pentito!».

«L’incontro con le malattie genetiche è avvenuto al momento di scegliere dove fare la tesi: nel panorama della medicina napoletana degli anni Sessanta l’unico istituto all’avanguardia era quello di Patologia medica, dove si studiavano in particolare le malattie metaboliche dell’adulto. Generoso non ha dubbi e si ritrova a svolgere gli studi per la sua tesi nel Laboratorio internazionale di genetica e biofisica “Buzzati Traverso”, vera e propria enclave statunitense nel cuore di Napoli, un posto dove «si faceva la ricerca, quella vera».

Terminata la tesi, Generoso sposa definitivamente la pediatria e vola negli Stati Uniti per completare la sua formazione presso i National Institutes of Health nel laboratorio del futuro premio Nobel per la chimica Christian Anfinsen.

«In quei due anni mi sono occupato soprattutto di ricerca di base: un’esperienza fondamentale, che mi ha aperto la mente per il mio lavoro negli anni successivi». Rientrato a Napoli comincia a lavorare come pediatra, specializzato in malattie metaboliche dell’infanzia. La sua carriera professionale è arricchita da un altro periodo negli Stati Uniti, alla Washington University di Saint Louis, ma anche dall’esperienza accademica in Italia. Tra i suoi studenti anche Andrea Ballabio, l’attuale direttore dell’Istituto Telethon di Napoli, e Giancarlo Parenti, ricercatore del Tigem e associato di Pediatria, con cui attualmente sta portando avanti un’importante sperimentazione farmacologica su bambini affetti da malattia di Pompe.

Oggi Andria è impegnato anche sul fronte della sanità pubblica, come coordinatore del Centro regionale per le malattie rare della Campania. «Per malattie neglette come queste è importante che ci sia la massima collaborazione tra medici, ricercatori e famiglie». Per i medici che si occupano di malattie rare, gli aspetti relazionali sono - se possibile - ancora più importanti che per gli altri professionisti della salute.

«Comunicare una diagnosi di malattia rara può condizionare enormemente il rapporto con la famiglia. Non è facile dire a dei genitori che il loro figlio dovrà seguire una terapia impegnativa per tutta la vita o, peggio, che non esistono cure. Per non parlare di quando sta per iniziare una sperimentazione clinica e non c’è posto per tutti. Non si può nascondere che cosa aspettarsi, ma bisogna anche infondere fiducia nella ricerca, l’unica strada che può portare a migliorare la vita di questi bambini. La terapia, comunque, si fa insieme: in questo senso le associazioni di pazienti svolgono un ruolo fondamentale».

Il bagaglio di Andria è pieno di ricordi, alcuni felici altri più dolorosi. C’è Rossella, che oggi ha 12 anni, ma che a 9 mesi era data per spacciata a causa della malattia di Pompe. I suoi genitori si sono incatenati davanti all’ospedale dove era ricoverata per chiedere che le venisse procurato un farmaco sperimentale, oggi terapia standard per questa malattia. Grazie alla tenacia dei genitori e dei suoi medici, nonché all’intercessione dell’allora ministro della Salute Sirchia, Rossella riuscì ad avere il farmaco.

«La storia finì sui giornali - ricorda Andria - e cominciarono a scriverci anche altre famiglie. Poco tempo dopo venne da noi una bimba nella stessa situazione di Rossella: quella volta il farmaco non arrivò e la bimba morì. La sua foto è ancora sulla mia scrivania, a ricordarmi perché e per chi continuiamo a lottare».

Una forza che viene anche da quei genitori che pur avendo perso un figlio credono ancora nella ricerca, per i figli degli altri che sono ancora vivi: c’è la mamma che decide di donare alla scienza le cellule della figlia che non c’è più, oppure i genitori che pur avendo perso un figlio si danno ancora molto da fare con l’associazione dei pazienti, organizzando convegni e raccogliendo fondi. «Sono queste persone, il loro calore nonostante tutto, che ci fa andare avanti».

Articolo pubblicato sul numero 4 del Telethon Notizie. Se vuoi ricevere anche tu l'house organ di Telethon scrivi a [email protected].

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