Storia di Attya, ricercatrice, e del suo viaggio umano e professionale che l’ha portata all’Istituto San Raffaele Telethon di Milano per la terapia genica.

Attya Omer - Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica, Milano

«Non ci sono tanti posti al mondo così validi per studiare la terapia genica applicata alle cellule staminali del sangue»: parola di Attya Omer, concentrato di volontà e amore per la scienza, che ha scelto di lavorare all’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica (SR-Tiget) di Milano e che è l’autrice principale di un importante studio pubblicato in questi giorni sulla rivista scientifica Cell.

Attya è nata a Parigi da genitori pakistani, emigrati in Francia quando erano molto giovani. «Mia madre non è mai andata a scuola, aveva 25 anni quando è arrivata qui a Parigi insieme a mio padre» racconta. «Non avendo potuto ricevere un’istruzione ha sempre voluto che noi figli, siamo sei in totale!, avessimo l’opportunità di studiare. Sono cresciuta in una metropoli europea ma al contempo a stretto contatto con la comunità pakistana: ho visto ragazze cresciute insieme a me smettere di andare a scuola a 16 anni, per il solo fatto che erano donne. La mia famiglia ci ha spronato ad andare avanti per la nostra strada!».

La carriera scolastica di Attya è stata brillante fin dall’inizio, ma quando è stato il momento di decidere cosa fare all’università ecco che certi pregiudizi hanno di nuovo fatto capolino. «Nonostante fossi sempre stata tra i primi della classe mi hanno consigliato un percorso di studi tecnico, all’Ecole Nationale Chimie Physique Biologie. Di fronte alla mia motivazione e ai miei ottimi voti, una professoressa mi ha chiesto perché non avessi intrapreso studi di tipo superiore: aveva ragione, infatti dopo la cosiddetta bachelor degree in Biotecnologie, ho conseguito anche il master of science in Neurobiologia presso l’École pratique des hautes études, istituzione pubblica a carattere scientifico che mira proprio a formare alla pratica della ricerca fondamentale e applicata. Solo qualche anno dopo ho realizzato quanto i pregiudizi riguardo al mio essere una donna dall’aspetto evidentemente non europeo avessero condizionato il mio percorso».

Ma la motivazione di Attya è sempre stata forte: voleva diventare una ricercatrice, così dopo la laurea ha cominciato il dottorato di ricerca all’Université Paris-Sud. «Studiavo la malattia di Huntington, - racconta -una grave malattia genetica del sistema nervoso che è anche uno dei modelli fondamentali per lo studio del cervello umano. Durante il dottorato ho fatto una breve esperienza negli Stati Uniti che mi è piaciuta molto: era un contesto multietnico e stimolante, con dinamiche molto diverse da quelle a cui ero abituata. Così al mio rientro ho deciso che volevo tornarci, ma per farlo dovevo trovare i fondi. Ho provato con il programma Fulbright, che mette a disposizione borse di studio per studiosi, artisti e scienziati. Ho scoperto il bando un giorno prima della scadenza e ho passato la notte prima del colloquio a scrivere il progetto, ma ce l’ho fatta!».

Negli Stati Uniti Attya ci è rimasta quasi tre anni, al Whitehead Institute for Biomedical Research di Cambridge, nel Massachusetts. Terminata la borsa Fulbright, infatti, il suo capo le ha proposto di restare. «Non ci ho pensato due volte: oltre al fatto di trovarmi in un contesto scientifico molto stimolante, per me significava anche emanciparmi. Nessuna delle donne della mia famiglia era mai andata all’estero, né aveva mai vissuto da sola: era qualcosa di nuovo che volevo assaporare fino in fondo. Studiavo la microcefalia, una condizione per cui il cervello presenta un volume ridotto, tramite l’impiego di cellule staminali e tecniche di ingegneria genetica. Ero felicissima, soddisfatta e non pensavo di tornare in Europa, almeno non nell’immediato».

Ma come spesso accade, la vita può prendere strade inattese. Durante una breve esperienza in Italia, all’Università di Brescia, Attya conosce Farrukh: anche lui di famiglia pakistana, vive in Italia da quando ha 12 anni e lavora in banca. «Dopo una relazione a distanza di quasi un anno e mezzo, ci siamo sposati. Il nostro progetto era di trasferirci insieme in Canada - racconta Attya - ma quando ho scoperto di aspettare una bambina ho capito che non volevo crescesse così lontano dalle nostre famiglie. Così ho chiesto al mio capo un consiglio su un laboratorio di ricerca europeo valido dove potessi applicare le mie competenze di ingegneria genetica alle cellule staminali, in particolare a quelle del sangue dopo un’esperienza personale che mi aveva molto toccato. Lui non ha avuto dubbi e mi ha detto che il posto che faceva per me era senza dubbio l’Istituto San Raffaele Telethon di Milano diretto da Luigi Naldini. Io non credevo alle mie orecchie, era addirittura vicino alla città di mio marito… E a proposito di pregiudizi, ammetto che da sola mai avrei pensato all’Italia».

Il consiglio si rivela quello giusto: il colloquio con Naldini va a buon fine e nell’estate del 2018 si trasferisce definitivamente in Italia. I primi mesi non sono facili: quando a ottobre nasce la sua bambina, l’esperienza del parto è piuttosto traumatica: «Mi hanno fatto entrare da sola in sala parto, nessuno parlava inglese né si preoccupava che capissi cosa stesse succedendo. È triste ammetterlo, ma ancora una volta il mio aspetto e il colore della mia pelle hanno influito su come sono stata trattata. All’inizio del 2019, poi, ho iniziato a lavorare all’SR-Tiget: da una parte ero felice di iniziare a lavorare lì, dall’altra non è stato facile conciliare il lavoro con la maternità, nonostante il supporto della famiglia di mio marito. A un certo punto ho avuto un momento di sconforto: una nuova città, una figlia piccola, un nuovo lavoro su un tema nuovo… non è che forse avevo esagerato? Poi ho trovato un mio equilibrio, grazie anche al supporto dei colleghi e del mio capo».

Il tema dell’inclusione delle persone straniere le sta molto a cuore e ammette che c’è ancora molto su cui lavorare. «Il primo giorno sono venuta in laboratorio indossando il velo, più che altro per osservare le reazioni delle persone e per stimolare altre donne musulmane a farlo, per ricordare che nonostante tutto viviamo in una società multietnica. In laboratorio tutti parlano in inglese, il problema è quando vai “fuori”: sono convinta che in Istituto servirebbero dei momenti di confronto sui temi del razzismo e, viceversa, dell’integrazione. Da parte mia mi sono sforzata non solo di imparare l’italiano, che sto studiando e che mio marito parla anche in casa con i nostri figli, che nel frattempo sono diventati due, ma anche di coltivare le relazioni nel posto in cui lavoro. Carriera e famiglia sono entrambi molto importanti e farò del mio meglio per farli crescere qui in Italia». Un punto di vista, quello di Attya, molto prezioso per l’intero Istituto, che si sta impegnando a promuovere un ambiente di lavoro sempre più inclusivo, che possa arricchire il dibattito, non solo scientifico.

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