Nel mondo sono circa 6,5 milioni i pazienti con malattia di Parkinson; in occasione della Giornata mondiale di sensibilizzazione, che si celebra l’11 aprile, facciamo il punto sulle cose fondamentali da sapere e sull’importanza della ricerca.

parkinson

«Ok, ho il Parkinson, che nella mia vita occupa un certo spazio. Però c’è altro spazio, nel quale posso lavorare per trovare nuovi modi per adattarmi alla situazione e rifiorire». Parola dell’attore Michael J. Fox, protagonista di "Ritorno al futuro", che ha ricevuto la diagnosi della malattia a soli 29 anni. Dopo un lungo periodo segnato da alcolismo e depressione, Fox è rifiorito davvero, tornando anche sulle scene.

È vero però che la diagnosi di malattia di Parkinson spaventa ancora molto, anche perché non c’è ancora una conoscenza diffusa su questa malattia.

In occasione della Giornata mondiale di sensibilizzazione sul Parkinson, che si celebra l’11 aprile, proponiamo quindi una serie di domande e dubbi comuni sulla malattia, per fare chiarezza e creare consapevolezza.

Cos’è la malattia di Parkinson?

Si tratta di una malattia neurodegenerativa a evoluzione lenta ma progressiva, che coinvolge funzioni principalmente motorie ma anche di altro tipo.

Nella sua forma classica, che riguarda circa nove casi su dieci, la malattia si manifesta dopo i 60 anni e in modo sporadico, senza che ci siano altri pazienti in famiglia.

Un caso su dieci è invece ereditario e spesso si manifesta già in età giovanile.

Quanto è frequente?

Sono circa 6,5 milioni in tutto il mondo i pazienti con malattia di Parkinson. È un numero elevato. Cresciuto molto negli ultimi decenni, è destinato a crescere sia per i miglioramenti continui nella diagnosi, sia perché è una patologia nella grande maggioranza dei casi legata all’invecchiamento.

I sintomi della malattia: come si manifesta?

Ce lo spiega Jenny Sassone, ricercatrice dell’Università Vita-Salute del San Raffaele e dell’Unità di ricerca in Neurofarmacologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, dove si occupa dello studio dei meccanismi molecolari alla base di malattie neurodegenerative.

“Il sintomo più noto è il tremore a riposo, al quale si aggiungono un notevole rallentamento dei movimenti, soprattutto del cammino, e una caratteristica postura, con il corpo leggermente piegato in avanti, che fa aumentare il rischio di cadute”.

Jenny Sassone, ricercatrice

Attenzione, però: tremore e malattia di Parkinson non vanno sempre di pari passo. Intanto, perché ci sono forme di tremore che non sono associate alla malattia e in secondo luogo perché esiste una forma di Parkinson, detta rigido-acinetica, nella quale il tremore è assente e che interessa fino al 30% dei pazienti.

“I disturbi del movimento possono essere accompagnati – e spesso preceduti – da sintomi che interessano il sistema nervoso autonomo, come una forte stitichezza, l’incontinenza, la tendenza agli svenimenti quando ci si alza dal letto o da una sedia. Inoltre, posso esserci difficoltà cognitive e disturbi come ansia e depressione” continua Sassone. 

Le manifestazioni variano molto da paziente a paziente, tanto che secondo molti esperti sarebbe più corretto parlare di parkinsonismo. E varia anche la velocità di progressione: molto rapida in alcuni pazienti e più lenta in altri.

Quali sono le cause?

“Sappiamo – spiega Sassone – che a causare la malattia di Parkinson è la morte di un gruppo di neuroni produttori di dopamina (una delle molecole usate dalle cellule nervose per comunicare tra di loro) localizzati in una piccola regione profonda del cervello.

Non è ancora del tutto chiaro, però, quali meccanismi provocano questa morte, in particolare per quanto riguarda le forme sporadiche della malattia”.

L’ipotesi è che tutto dipenda da una particolare combinazione di fattori genetici di predisposizione e fattori ambientali. «Alcuni pesticidi, per esempio, sono stati chiaramente associati a un aumento del rischio di sviluppare la malattia, tanto che il loro uso è stato bandito in molti paesi».

Negli ultimi anni, inoltre, si sta facendo strada l’ipotesi che la malattia di Parkinson possa avere origine non a livello cerebrale ma a livello intestinale, dove comincerebbe ad accumularsi una proteina che solo in un secondo momento, attraverso il nervo vago, arriverebbe al cervello.

Nelle più rare forme genetiche, invece, tutto parte appunto dai geni, cioè da mutazioni in singoli geni specifici. «Oggi ne conosciamo diversi coinvolti nell’insorgenza della malattia. Tra i più importanti, troviamo il gene Gba, il gene Lrrk2 e il gene Prkn o Park2, mutato in almeno il 50% nei casi con esordio sotto i 45 anni e nel 75% dei casi con esordio sotto i venti».

Come si cura?

Uno dei motivi per i quali la diagnosi spaventa ancora molto è la mancanza di una cura definitiva, nel senso che non esistono farmaci specifici per prevenire o arrestare la morte delle cellule nervose che la provoca.

Allo stesso tempo, però, disponiamo di molti strumenti terapeutici. Da vari tipi di farmaci all’esercizio fisico a un intervento chirurgico per alcune forme della malattia, che possono aiutare i pazienti a tenere i sintomi sotto controllo, mantenendo a lungo una buona qualità di vita.

Allo stesso tempo, però, disponiamo di molti strumenti terapeutici, da vari tipi di farmaci all’esercizio fisico a un intervento chirurgico per alcune forme della malattia, che possono aiutare i pazienti a tenere i sintomi sotto controllo, mantenendo a lungo una buona qualità di vita.

E la ricerca non si ferma: compresa quella sulle forme genetiche rare della malattia, che può dare informazioni preziose non solo per i pazienti colpiti da quelle forme, ma per tutti i pazienti. Ecco il contributo di Fondazione Telethon:

27 progetti di ricerca
+7.000.000 euro investiti

Perché è importante studiare le forme genetiche della malattia, anche se sono più rare?

“Proprio perché la malattia è così eterogenea e complessa è fondamentale disporre di modelli di studio semplificati. È proprio così che possono considerate le forme più rare, di chiara origine genetica”, afferma Sassone. 

Studiare le forme genetiche rare permette di porsi domande molto puntuali, cercando risposte in un ambito relativamente più ristretto e dunque più facile da esplorare.

Domande come: cosa succede di sbagliato in una cellula che ha una certa mutazione? C’è un’alterata produzione di alcune proteine? Quali proteine? Che ruolo hanno? Si attivano dei meccanismi di morte cellulare? Quali meccanismi?

«Trovare le risposte a queste domande può portare informazioni utili anche in generale. È quanto accaduto per esempio con la scoperta del primo gene associato a una forma ereditaria di Parkinson, presente in un piccolo gruppo di pazienti (poche decine nel mondo). Era il gene codificante per una proteina chiamata alfa-sinucleina, il cui studio ha permesso, e continua a permettere, di capire molto sulla forma sporadica, ma molto più diffusa, della malattia».

Grazie al sostegno di Fondazione Telethon, nel suo laboratorio Jenny Sassone si occupa di un altro gene coinvolto in una forma giovanile ereditaria di Parkinson: Park2. «Abbiamo individuato un farmaco che in modelli animali con mutazioni di Park2 sembra in grado di arrestare la morte dei neuroni produttori di dopamina e ipotizzato che questa morte avvenga tramite un processo chiamato necroptosi» spiega la ricercatrice. «Ora vogliamo valutare se altri farmaci hanno lo stesso effetto protettivo e assicurarci che sia davvero la necroptosi il processo coinvolto».

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