Alessandro Aiuti, vicedirettore e responsabile della ricerca clinica dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica di Milano, racconta la sua esperienza di vaccinazione contro il Covid-19 e spiega perché è fondamentale per il futuro di tutti.

Alessandro Aiuti

Il 6 gennaio 2021, insieme a molti altri colleghi dell’Ospedale San Raffaele, ho ricevuto la prima dose del vaccino contro il Covid-19 e tre settimane dopo ho completato il ciclo: ripensando a quel momento, mi sento di condividerne il valore con tutti.

"Da medico, ho provato innanzitutto sollievo: il vaccino è l’unico mezzo che consente di proteggere sé stessi e gli altri da questa nuova malattia che conosciamo ancora parzialmente, ma che può presentarsi in forma grave anche in persone sane".

Per noi operatori sanitari è fondamentale non ammalarci e spezzare la catena dell’infezione, soprattutto per i nostri pazienti, spesso particolarmente fragili come i bambini affetti da immunodeficienze congenite o sottoposti a trattamenti che ne azzerano le difese naturali, come chemioterapia o trapianto di midollo.

Con il procedere della campagna vaccinale sarà importante proteggere in primis proprio le categorie più a rischio: anziani, persone con altre malattie per cui l’infezione da SARS-Cov2 potrebbe dare complicanze, familiari e caregiver nel caso non possano vaccinarsi in prima persona. Man mano poi che saranno vaccinate fasce sempre più ampie della popolazione, potremo ambire a raggiungere quell’immunità di gregge che ci consentirà di convivere con questo virus ed evitare che il sistema sanitario sia nuovamente travolto.

Da membro dell’Agenzia europea del farmaco (Ema, del cui Comitato per le terapie avanzate faccio parte dal 2019) non posso poi che provare orgoglio per la velocità con cui si è arrivati a disporre di tre vaccini in meno di un anno dal sequenziamento del patrimonio genetico del nuovo coronavirus, con diversi altri candidati già al vaglio. Di fronte alla pandemia i principali enti regolatori come l’Ema e il suo analogo statunitense, la Food and Drug Administration (Fda), si sono adattati a questo contesto di assoluta emergenza riducendo al minimo i tempi, senza che però questo andasse a discapito di una valutazione accurata e indipendente della sicurezza ed efficacia dei nuovi vaccini. Un lavoro che continuerà ancora nei prossimi anni, per raccogliere ulteriori dati sul lungo periodo e su un numero sempre più ampio di persone.

Infine, da scienziato sento l’urgenza di capirne di più di questo virus, di continuare a studiarne il comportamento, le strategie con cui il nostro sistema immunitario può riconoscerlo e neutralizzarlo, ed eventuali difetti genetici che ci rendono suscettibili. Ci sono tante cose che ancora non sappiamo: per esempio, nel caso dei pazienti con un sistema immunitario molto fragile – a causa di un’immunodeficienza congenita, oppure a seguito della chemioterapia o di un trapianto – abbiamo riscontrato forme di Covid-19 meno gravi di quanto ci saremmo aspettati, addirittura senza sintomi in alcuni casi. D’altra parte soggetti apparentemente sani e senza altre patologie hanno sviluppato forme molto gravi, che in rari casi nei bambini si sono manifestate con forme infiammatorie. Indagare se questi fenomeni siano dovuti non al caso ma per esempio a particolari fattori genetici potrebbe aiutarci a capire meglio come si propaga l’infezione o come il sistema immunitario si attiva contro questo virus. È quanto ci proponiamo di fare nell’ambito del COVID Human Genetic Effort, un consorzio internazionale nato proprio per studiare le varianti genetiche, rare ma anche più comuni, che possano modulare la risposta immunitaria a SARS-CoV-2

"La ricerca scientifica e la conoscenza che ne deriva sono infatti l’unico strumento che abbiamo per migliorare il futuro della collettività".

Se siamo arrivati così presto ad avere i primi vaccini è grazie non solo alle ingenti risorse umane ed economiche messe in campo, ma anche alle conoscenze pregresse sugli altri coronavirus, la biologia dell’Rna o le modalità per veicolarlo senza che venga distrutto. L’Rna, ovvero la molecola che consente di tradurre le informazioni genetiche in proteine e che nel caso dei primi vaccini rende possibile la produzione di anticorpi specifici contro il principale antigene del nuovo coronavirus, è di per sé molto labile, tende cioè a degradarsi rapidamente: se oggi siamo in grado di usarlo come farmaco somministrandolo attraverso invisibili particelle di grasso, che si fondono con la membrana delle nostre cellule e vi rilasciano all’interno il contenuto, è grazie ad anni e anni di ricerca di base in ambiti molto diversi, dai tumori alle malattie genetiche rare.

Negli anni abbiamo imparato a trasportarlo, ma anche a modificarlo in modo che sia ridotta l’attivazione dell’immunità innata, la prima difesa dell’organismo contro gli agenti patogeni: oggi sappiamo quali modifiche apportare all’Rna per stimolare i linfociti la produzione degli anticorpi senza che venga inattivato prima del tempo. Un insegnamento di cui dobbiamo fare tutti tesoro, perché le ricadute della ricerca di base possono andare molto al di là dell’ambito in cui sono nate.

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