È l’obiettivo a cui punta la ricercatrice Telethon Alessia Indrieri, arrivata per caso a studiare queste malattie e ora super determinata a far avanzare la ricerca di una cura.

Alessia Indrieri - Tigem

Nel saggio “Where good ideas come from” (“Da dove vengono le buone idee”) lo scrittore americano Steven Johnson indica caffetterie e aree per la pausa caffè - per eccellenza luoghi di scambi informali - tra gli ambienti più fertili per la nascita di idee innovative. L’esperienza della ricercatrice Alessia Indrieri sembra confermarlo, visto che il suo progetto sul potenziale effetto di due piccole molecole di RNA per la terapia di più malattie mitocondriali diverse nasce proprio da una chiacchierata a un distributore di caffè. «Le malattie mitocondriali sono molto eterogenee, sia nelle manifestazioni cliniche sia nella causa genetica che le determina. Per questo ho da tempo l’obiettivo di sviluppare un approccio terapeutico indipendente dal difetto genetico responsabile della malattia» spiega Indrieri, dal 2020 responsabile del Laboratorio di medicina mitocondriale dell’Istituto Telethon per la Genetica e la Medicina (Tigem) di Pozzuoli. Le abbiamo chiesto di raccontarci meglio di che cosa si tratta.

Partiamo dall’inizio, da quel caffè…

«Un giorno di qualche anno fa stavo prendendo un caffè con la mia carissima amica Sabrina Carrella, che lavorava allora nel gruppo di Sandro Banfi, sempre al Tigem. A un certo punto, lei ha cominciato a raccontarmi di due molecole di RNA coinvolte nello sviluppo della retina. Poiché queste molecole hanno a che fare con il funzionamento dei mitocondri ci siamo subito chieste se non potessero essere quello che cercavo. Lo considero un classico esempio di serendipity, il ritrovamento imprevisto di qualcosa che non si stava cercando».

Anche il suo interesse per le malattie mitocondriali è nato per caso?

«In effetti sì: durante il dottorato di ricerca mi sono occupata delle basi molecolari della microftalmia con lesioni cutanee lineari, una rarissima malattia del neurosviluppo. Abbiamo dimostrato che, contrariamente a quanto si pensava, è una malattia mitocondriale, causata cioè da mutazioni in geni coinvolti nel funzionamento dei mitocondri, gli organelli che sono considerati le centrali energetiche delle cellule e che per me sono diventati in assoluto gli organelli più affascinanti».

Perché?

«Intanto per la loro origine: si ritiene che derivino da batteri che circa due miliardi di anni fa sono stati inglobati da una primitiva cellula eucariote, il tipo di cellula dalla struttura complessa che costituisce animali, vegetali e altri organismi. In secondo luogo, perché sono gli unici organelli dotati di un proprio DNA: è davvero interessante studiare come il DNA della cellula e quello dei mitocondri riescano non solo a “parlarsi” ma anche ad andare così d’accordo per un obiettivo comune che è il buon funzionamento della cellula. Infine, per il ruolo fondamentale che rivestono nelle cellule stesse e per le conseguenze negative che possono provocare se non funzionano come dovrebbero. Pensate a quanti danni può fare una centrale energetica se non funziona in modo corretto!».

Proprio quello che accade nel caso delle malattie mitocondriali…

«Esatto. Tra l’altro sono malattie molto rare se considerate singolarmente, ma insieme costituiscono il gruppo più frequente di malattie neurologiche ereditarie. Sono tantissime malattie diverse, sia rispetto ai sintomi – che possono riguardare qualsiasi organo e insorgere a qualsiasi età – sia perché sono moltissimi i geni e le mutazioni coinvolti. E anche le modalità di trasmissione possono variare.  Dato questo scenario, è impossibile pensare di sviluppare una terapia genica specifica per ogni gene o mutazione responsabile di malattia. Da qui l’idea di cercare una strategia terapeutica indipendente dalla causa molecolare della malattia».

Parliamo allora di questi due piccoli RNA scoperti per caso al distributore di caffè…

«Si chiamano miR181 a e b e sono due piccole (mi sta per micro) molecole di RNA che regolano l’attivazione di una serie di altri geni. Abbiamo scoperto che sono in grado di agire in modo simultaneo e sinergico su diversi aspetti della vita dei mitocondri, dalla nascita allo smaltimento di quelli che non funzionano più e che devono essere eliminati e altri ancora. Ora, esistono già approcci che lavorano su questi aspetti presi singolarmente, promuovendo la nascita di nuovi mitocondri o lo smaltimento di quelli disfunzionali, ma non sono molto efficaci. La nostra ipotesi è che modulando l’attività di questi due piccoli RNA si possa agire su più processi in modo sinergico e, dunque, più efficace».

Questa l’ipotesi. I dati cosa dicono?

«Abbiamo individuato, e brevettato, una molecola capace di inibire i due microRNA e l’abbiamo inserita in un virus opportunamente modificato per trasferirla in sicurezza all’interno delle cellule. I primi esperimenti sono stati condotti con modelli di malattie mitocondriali della retina, come la neuropatia ottica ereditaria di Leber e l’atrofia ottica dominante, e hanno dato risultati decisamente promettenti».  

Ci sono malattie che non sono classificate come mitocondriali, ma nelle quali comunque i mitocondri funzionano male. Lo stesso approccio potrebbe valere anche per queste malattie?

«Sì. Per esempio, proprio il gruppo di Banfi ha appena ottenuto risultati molto promettenti in modelli preclinici di distrofie ereditarie della retina, che non sono direttamente causate da alterazioni della funzione mitocondriale. E poiché molte malattie dell’invecchiamento sono associate a disfunzioni mitocondriali pensiamo che potrebbe trovare applicazione anche per malattie molto più diffuse come la degenerazione maculare senile o la malattia di Parkinson».

Un ulteriore esempio delle vastissime ricadute che può avere la ricerca sulle malattie genetiche rare. Indrieri, si dice sempre che fare ricerca in Italia è molto difficile. Lei perché non ha abbandonato (la ricerca, o l’Italia)?

«Sono una calabrese doc, quindi sono molto testarda: difficilmente mi arrendo, anche di fronte agli ostacoli. Adoro la soddisfazione che si prova quando si riesce a superarli. In questo forse mi ha aiutata anche la mia esperienza sportiva: sono stata pallanuotista agonistica e oggi gioco a calcetto, anche se non a livello agonistico. Nello sport, quando uno si impegna e non getta la spugna, al traguardo ci arriva. E naturalmente conta molto lavorare al Tigem, dove ci sono standard internazionali».

Ci dica la verità… ma quel famoso caffè com’era?

«Un orribile caffè “delle macchinette”. Oggi siamo più attrezzati e del resto i napoletani mi hanno fatta diventare molto esigente in materia!».

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