Ogni giorno ben 180 litri di sangue passano nei nostri reni, che li ripuliscono dalle sostanze di scarto e recuperano quelle utili all'organismo, come l'acqua. Un lavoro ad alta efficienza - alla fine produciamo solo 1,5-2 litri di urina al giorno - reso possibile dalla complessa anatomia di questi organi. Come tutte le macchine, però, anche i reni possono incepparsi, per esempio per un tumore, uno stato infiammatorio o una malattia genetica.

Tracciare un quadro delle malattie genetiche del rene è compito arduo, perché sono tante e variegate.

Luca Rampoldi

«Alcune, tipicamente congenite, incidono sullo sviluppo e la forma, altre sulla funzione e possono comparire in varie età della vita» spiega Luca Rampoldi, responsabile del gruppo di ricerca sulla genetica molecolare delle malattie renali all'Istituto Telethon Dulbecco presso l'Ospedale San Raffaele di Milano. Una seconda distinzione riguarda i distretti interessati: «Alcune malattie colpiscono i glomeruli, i gomitoli di capillari in cui avviene la filtrazione; altre i tubuli, le strutture che raffinano il filtrato; in altre ancora si ha la formazione di cisti» precisa Alessandra Boletta, direttrice dell'Unità di ricerca sulle malattie cistiche renali, sempre al San Raffaele.

Il problema è che quando i reni smettono di funzionare non si possono più recuparare: bisogna ricorrere alla terapia sostitutiva, con la dialisi o il trapianto. Soluzioni salvavita, certo, ma con grossi limiti: la pessima qualità di vita e la scarsa disponibilità di organi.

Ecco perché è fondamentale la ricerca, a partire da quella sulle patologie genetiche, che non a caso costituiscono uno dei sottori di interesse di Telethon, con ben 33 progetti finanziati proprio nell'ambito delle nefropatie.

Prendiamo le patologie studiate dal gruppo di Rampoldi, la malattia cistica della midollare renale e la nefropatia iperuricemica giovanile familiare. «Entrambe sono rare, presentano un quadro clinico simile e sono causate da mutazioni nello stesso gene, UMOD, codificante per la proteina uromodulina» spiega il ricercatore. L'uromodulina mutata si accumula nelle cellule, che ovviamente ne soffrono attivando in risposta segnali di stress che innescano un processo infiammatorio. «Poco a poco il tessuto diventa fibroso e smette di funzionare. Con il tempo si arriva all'insufficienza renale cronica».

Rampoldi e colleghi cercano di capire come funziona la proteina difettosa [...]. 

«Stiamo lavorando a tre approcci: bloccare il processo infiammatorio, evitare l'accumulo di uromodulina mutata e promuoverne la degradazione». [...].

Alessandra Boletta

L'équipe di Alessandra Boletta lavora invece sul rene policistico, che interessa in Italia circa 60.000 persone [...]. Si manifesta con la formazione in entrambi i reni di cisti che si ingrossano progressivamente, comprimendo il tessuto sano fino a comprometterne la funzionalità. «Nell'85% dei casi la malattia dipende da mutazioni nel gene PKD1 e nel restante 15% da mutazioni nel gene PKD2: in pratica, le proteine mutate sono così difettose che è come se non ci fossero» spiega Boletta, il cui gruppo ha pubblicato di recente sulla rivista Nature Medicine alcuni risultati davvero promettenti.

Tutto è cominciato da un colore anomalo del terreno di coltura di un gruppo di cellule prive del gene PKD1 coltivate in laboratorio. 

«Quel colore significava che le cellule consumavano più glucosio del normale» spiega la ricercatrice. Un fatto che, a sua volta, suggeriva che il coinvolgimento di PKD1 in una delle vie metaboliche fondamentali per l'organismo, la glicolisi.

Si tratta del processo che permette alle cellule di produrre energia proprio a partire dal glucosio e può avvenire sia in presenza di ossigeno sia in sua assenza.

La prima via è più efficiente, ma per qualche ragione le cellule senza PKD1 (o con PKD1 difettosa) preferiscono la seconda che, essendo meno efficiente, richiede molto più glucosio, al punto che le cellule ne diventano dipendenti. Da qui l'idea di provare a sostituirlo con una sostanza simile (2DG), ma inutilizzabile da parte delle cellule. Boletta e colleghi hanno somministrato il 2DG a un gruppo di topi con una malattia molto simile al rene policistico umano, osservando un decisivo miglioramento delle condizioni. Ci vorrà tempo prima di arrivare a un'eventuale sperimentazione sull'uomo, ma è già un passo fondamentale. E anche in questo caso, l'utilità potrebbe estendersi ad altre patologie cistiche del rene (e del fegato). Naturalmente, a patto che la ricerca continui.

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