Emofilia, all’Università di Perugia si fanno prove di tolleranza

Grazie a fondi Telethon, i ricercatori studiano da anni come risolvere uno dei principali problemi della terapia sostitutiva, ovvero la formazione di anticorpi inibitori che ne annullano l’effetto.

Il 17 aprile si celebra la Giornata mondiale dell’emofilia, malattia genetica dovuta alla carenza di uno dei fattori responsabili della coagulazione del sangue e per questo caratterizzata dalla tendenza ad andare incontro a emorragie, sia esterne che interne, talvolta anche spontanee. Un problema che solo in Italia riguarda circa 5000 persone se si considerano entrambe le forme con cui l’emofilia può manifestarsi: quella di tipo A, dovuta al deficit di fattore VIII e che è anche la più frequente, e quella tipo B, più rara, dovuta invece alla carenza del fattore IX.

Le prospettive e la qualità di vita di questi pazienti sono significativamente migliorate a partire dagli anni Ottanta, quando ha cominciato a essere disponibile la terapia sostitutiva, ovvero la somministrazione del fattore coagulativo carente, ottenuto nei primi anni a partire dal sangue di donatori e successivamente grazie ai progressi della tecnologia del dna ricombinante. La ricerca, però, non si è mai fermata, per provare a offrire nuove soluzioni o migliorare quelle esistenti: anche la Fondazione Telethon ha contribuito in tal senso, investendo oltre 4,3 milioni di euro nella ricerca sull’emofilia.

Se la terapia genica, a cui da molti anni lavorano anche i ricercatori dell’Istituto San-Raffaele Telethon di Milano, potrebbe un giorno consentire di correggere in modo duraturo il difetto genetico in un’unica somministrazione, parallelamente è importante studiare come risolvere i limiti dei trattamenti attualmente disponibili e migliorarli. Tra questi c’è la formazione di anticorpi inibitori diretti contro il fattore della coagulazione ricombinante, che di fatto ne annullano l’effetto terapeutico, un fenomeno che si verifica nel 30 per cento dei casi di emofilia A e nel 10 per cento dei casi di emofilia B.

All’Università di PerugiaFrancesca Fallarino studia da molti anni questo particolare aspetto, anche grazie a fondi Telethon. «Il sistema immunitario di questi pazienti percepisce i fattori della coagulazione somministrati dall’esterno come estranei alla stregua di virus e batteri, quindi si attiva per neutralizzarli. Se questo avviene, la terapia sostitutiva diventa del tutto inefficace e bisogna ricorrere ad alternative, che però sono in grado di risolvere solo parzialmente il problema, o per certi pazienti non sono proprio disponibili. Da diversi anni stiamo quindi studiando, anche con il supporto di Telethon, come funziona questa risposta immunitaria neutralizzante e come possiamo eventualmente inibirla».

In particolare, Fallarino e il suo team hanno identificato le specifiche cellule immunitarie che contribuiscono a far riconoscere il fattore VIII come estraneo, le cellule dendritiche, le stesse che si sono specializzate per segnalare batteri e virus ad altre cellule del sistema immunitario per indurle a reagirvi contro. Inoltre, un sottotipo particolare di queste cellule, quelle regolatorie, sono coinvolte anche in un meccanismo opposto, quello della tolleranza immunitaria, che invece istruisce il sistema immunitario a non reagire contro le strutture del nostro organismo. «I nostri studi nel modello animale di emofilia A hanno mostrato come in assenza di specifiche popolazioni di  cellule dendritiche regolatorie venga meno la tolleranza al fattore VIII fornito dall’esterno. Inoltre, abbiamo visto che anche in assenza di queste cellule si può ripristinare la tolleranza grazie ad alcuni metaboliti del triptofano, uno degli aminoacidi che compongono le proteine. Queste sostanze sono risultate assenti anche in un campione di pazienti emofilici con alti di livelli di inibitori che abbiamo studiato grazie alla collaborazione di alcuni colleghi del Centro emofilia di Firenze: potrebbero quindi rivelarsi la chiave per indurre la tolleranza al fattore VIII e migliorare così la risposta alla terapia in quei pazienti tuttora privi di opzioni».

Parallelamente, il gruppo di Perugia ha messo le proprie competenze a disposizione di altri team che, in Italia ma non solo, stanno lavorando a nuovi approcci terapeutici per l’emofilia. «Insieme a colleghi americani di Harvard stiamo studiando se possiamo rendere “più accettabile” per il sistema immunitario il fattore VIII sintetico somministrandolo non più “nudo”, ma attraverso nanoparticelle simili a quelle impiegate per i nuovi vaccini a mRNA contro il covid-19. Sul fronte della terapia genica, anche grazie alla collaborazione con i ricercatori degli istituti Telethon di Milano e di Pozzuoli, stiamo valutando se possiamo intervenire sulle cellule che mediano la tolleranza immunologica per rendere il farmaco - che in questo caso sarebbe un vettore virale contenente la versione sana del gene per il fattore VIII - meno immunogenico. Si tratta insomma di trovare il giusto compromesso!».

Studiare il comportamento di queste cellule che regolano la risposta immunitaria potrebbe rivelarsi importante anche nell’ambito dell’emergenza pandemica attuale, come spiega Fallarino, «a complicare l’infezione da SARS-CoV2 è in buona parte dei casi una risposta infiammatoria eccessiva, che questo virus è in grado di sfruttare per replicarsi di più. Sappiamo che con l’età la risposta regolatoria diventa sempre meno efficiente, dando spazio all’infiammazione: questo potrebbe contribuire a spiegare come mai il covid-19 si manifesta in modo grave soprattutto nelle persone anziane. Stiamo quindi studiando i campioni di alcuni pazienti per capire se effettivamente la gravità della malattia correli con una mancata risposta di tipo regolatorio».

Se la pandemia ha messo davanti agli occhi di tutti quanto sia importante la ricerca scientifica, Francesca Fallarino tiene a sottolineare quanto studi di base di qualità siano fondamentali per guidare la ricerca applicata e lo sviluppo di terapie: «Il nostro è un lavoro faticoso, spesso frustrante e pieno di ostacoli economici e burocratici. Ma lo abbiamo scelto e abbiamo la responsabilità di farlo bene: nonostante le indubbie pressioni a cui siamo sottoposti per pubblicare su riviste importanti e reperire finanziamenti, dobbiamo portarlo avanti con rigore, con il tempo necessario, perché quello che scopriamo e mettiamo a disposizione della comunità è uno strumento che aziende e biotech possono sfruttare per sviluppare nuove conoscenze per sviluppare nuove terapie. Più i nostri dati sono solidi e ottenuti in modo rigoroso, tanto più potranno guidare la ricerca applicata».

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