Sempre al fianco delle famiglie di persone con una malattia rara, le Associazioni sono il luogo dove trovare conforto e un aiuto per superare le sfide di ogni giorno.

Il 29 febbraio si celebra la 16ma edizione della Giornata Mondiale delle malattie rare e vogliamo ricordare questa giornata dando voce a chi tutto l’anno, e non solo nel giorno più raro di tutti, è al fianco delle famiglie che convivono con una malattia rara.

Stiamo parlando delle Associazioni di pazienti: realtà che si impegnano attivamente ogni giorno per prendersi cura e farsi carico degli interessi delle persone a cui è stata diagnosticata una malattia rara.

Le malattie rare non vanno in vacanza e non basta un giorno “raro” per far sì che la rarità sia meno rara e che il mondo intorno a essa ne prenda consapevolezza, lavorando a politiche di inclusione sociale concrete. Il compito delle associazioni di pazienti è proprio questo, rendere visibile l’invisibile, facendo sì che la luce dell’opinione pubblica sia sempre accesa sull’esistenza e la presa in carico delle persone con malattia rara e delle loro famiglie.

Fare advocacy - termine preso dal linguaggio giuridico - per queste associazioni vuol dire rappresentare le persone con una malattia rara e tutelarle. Coloro che si impegnano all’interno delle associazioni sono nella maggior parte dei casi volontari che hanno deciso di provare a migliorare la condizione di vita dei propri cari e di tante altre famiglie che rappresentano, o portatori di interesse che convivono con la malattia. Persone che si informano, studiano, intraprendendo un percorso di impegno nelle politiche pubbliche e nei processi di ricerca, diventando testimoni e rappresentanti di molti malati rari. Un lavoro svolto spesso nei ritagli di tempo della vita quotidiana, senza orari né giorni festivi. Un attivismo che poggia le sue basi su due pilastri fondamentali: ascolto e condivisione.

Un sostegno, sempre

«Il supporto dell’associazione - spiega Sauro Filippeschi, Presidente dell’associazione Cornelia De Lange - è prezioso in ogni fase evolutiva di una patologia rara. L’associazione viene scoperta dopo la diagnosi e diventa il luogo dove trovare conforto, il posto in cui conoscere persone che hanno vissuto le tue stesse esperienze e che sanno cosa provi».

L’associazione è senza dubbio un aiuto durante la prima fase della vita, ma ricopre un ruolo centrale anche dopo. «Spesso i nostri ragazzi - continua Filippeschi - vogliono provare a staccarsi dal nucleo familiare, soprattutto quando i genitori diventano anziani. Non tutte le famiglie sono pronte a questo passo, temono sempre che l’accudimento del proprio figlio in strutture specializzate non sarà mai come quello in casa. Ma grazie al confronto con genitori che già ci sono passati, riescono a metabolizzare questo importante cambiamento e ad accettarlo».

Il legame che si crea tra le persone coinvolte è così forte che, a volte, i genitori che perdono il proprio figlio restano comunque nell’associazione per imparare a convivere con il senso di vuoto causato dalla perdita prematura. Essere associazione vuol dire trovare la forza per superare il proprio dolore personale e mettersi al servizio del dolore altrui, consapevoli che solo con la condivisione dei problemi e delle vittorie si possono fare passi avanti dal punto di vista sociale, istituzionale e scientifico.

«Le famiglie spesso sono restie ad accettare di essere “quel caso su centomila”. Il dolore, la rabbia fanno fatica ad andare via; per questo quando decidono di aprirsi con noi, di condividere la loro storia, anche a distanza di anni dalla diagnosi, inizia il loro percorso di accettazione della malattia. Siamo un’associazione di pazienti, ma siamo soprattutto una grande famiglia» racconta Francesca Lombardozzi, presidente dell’Associazione PFIC Italia Network, contattata mentre si trova in Sicilia, in supporto di una famiglia in procinto di far eseguire un trapianto di fegato sulla propria figlia.

«Fare “advocacy” è anche questo: quella bambina poteva essere mia figlia e non sarei voluta essere in nessun altro posto, se non qui vicino alla sua mamma e al suo papà. Credo sia fondamentale dare un senso a quello che ci è successo come genitori, anche se stiamo parlando di una tragedia. E quel senso lo trovo ogni giorno nell’aiutare chi soffre come noi».

Difendere i propri diritti 

Il dialogo con le Istituzioni è continuo. «Siamo genitori, ma anche avvocati dei nostri figli - continua Lombardozzi -. Dobbiamo lottare per i loro diritti e credo che se lo facciamo insieme, se uniamo le forze costruendo non solo una rete di persone, ma anche di associazioni, otterremo maggiori risultati perché se si urla insieme si urla più forte».

Fare advocacy vuol dire anche offrire alle famiglie, travolte dall’arrivo della diagnosi, un luogo sicuro in cui avere una visione trasversale e molteplice della malattia. Un luogo di riflessione su ciò che si sta vivendo. «Una malattia rara - racconta Andrea Buzzi, Presidente della Fondazione Paracelso - in particolare quando colpisce un bambino, è già di suo un fatto privo di senso. Ecco: credo che la nostra missione come associazione sia proprio offrire ai genitori una visione ampia, molteplice che permetta loro di rimettere la malattia al suo posto e dare un senso a ciò che gli è capitato. La malattia non può essere nascosta, anche quando è invisibile, e non possiamo minimizzarla, ma va lentamente interiorizzata e compresa come una parte di noi e della nostra storia».

Per arrivare a questa personale visione il ruolo delle associazioni è fondamentale. «La malattia è qualcosa di trasversale, ti fa entrare in contatto con grandi, bambini, con persone distanti da te chilometri, con persone con bagagli culturali completamente diversi. Tutte però che hanno la voglia di buttare fuori quello che provano, di interagire tra loro e di essere d’aiuto ad altri. Il nostro compito come associazione è rendere questa partecipazione non un dovere, le famiglie rare hanno già troppi doveri e compiti da rispettare, ma uno stimolo alla riflessione collettiva».

Cruciale nell’attività di advocacy delle associazioni di pazienti con malattia rara è il rapporto costante con il mondo della ricerca. «Dopo la diagnosi, le famiglie hanno tante domande sulla malattia, sui farmaci disponibili, sui trial clinici in corso e il nostro compito - spiega Simona Borroni, Presidente dell’associazione Gruppo Famiglie Dravet - credo sia proprio quello di offrire loro, nel modo più laico possibile, tutte le informazioni che abbiamo a disposizione. Di noi si fidano, vedono una fonte attendibile e sicuramente più comprensibile della realtà».

La collaborazione con la comunità medico scientifica di riferimento è costante. I rappresentanti delle associazioni dedicano parte della loro attività proprio alla formazione e all’approfondimento scientifico sulla propria patologia, incentivando la ricerca. «Dobbiamo aiutare le nostre famiglie - continua Borroni - anche a capire quali sono le nuove prospettive terapeutiche in corso di sviluppo, specialmente in malattie come la nostra dove diverse industrie stanno lavorando sullo sviluppo di terapie avanzate. Sarà molto importante nel prossimo futuro capire quali siano le differenze tra le sperimentazioni proposte perché solo così potranno fare scelte consapevoli per loro e per i loro figli».

Una seconda famiglia

Le associazioni di pazienti sono una spalla su cui poggiarsi, un aiuto pratico ed emotivo. Un luogo che permette il confronto e che mantiene viva la speranza per un futuro migliore. Ma soprattutto possono diventare una seconda famiglia, in cui la condivisione diventa la chiave per reagire, per rispondere alla vita e alle sfide di tutti i giorni con la voglia di stare insieme. Sempre, non solo il 29 febbraio, il giorno più raro dell’anno.

(Articolo pubblicato sul Telethon Notizie 1-2024)

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