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Che cos’è e come si manifesta la malattia di Wolman?

La malattia di Wolman rappresenta la forma più grave del deficit di lipasi acida lisosomiale, un enzima essenziale per la degradazione del colesterolo e dei trigliceridi. La carenza enzimatica porta all’accumulo di grassi in molti tessuti, talvolta fin dalla fase fetale. Tipicamente, però, l’esordio si ha nelle prime settimane di vita, con una distensione addominale e un ingrossamento di fegato e milza (epatosplenomegalia), talvolta accompagnato da ascite (accumulo di liquido nella cavità peritoneale). Un segno molto tipico è la presenza di calcificazioni a livello dei surreni, visibili nelle radiografie. Questi bambini presentano significativi disturbi digestivi (vomito, diarrea) e alimentari che possono causare un arresto improvviso della crescita ponderale e un deterioramento psico-motorio progressivo, seguito da grave anemia e cachessia (uno stato di profondo deperimento fisico e biologico). Pochi bambini superano l’anno di vita. A oggi sono stati descritti circa 50 casi, ma si pensa che molti casi rimangano sconosciuti a causa della difficile diagnosi.

Come si trasmette la malattia di Wolman?

La malattia è dovuta a mutazioni nel gene che codifica per la lipasi acida (LIPA or LAL), localizzato sul cromosoma 10. Si trasmette con modalità autosomica recessiva: per manifestarne i sintomi occorre cioè ereditare il difetto genetico da ciascuno dei genitori, entrambi portatori sani (e del tutto asintomatici).

Come avviene la diagnosi della malattia di Wolman?

La diagnosi può essere rapidamente confermata misurando l’attività dell’enzima su cellule del paziente come globuli bianchi o fibroblasti, che rivela un deficit quasi totale. In caso di familiarità è possibile eseguire la diagnosi prenatale. La diagnosi differenziale si pone con la malattia di Gaucher di tipo 2, la malattia di Niemann-Pick di tipo A, le sindromi fagocitiche e con tumori quali leucemie e neuroblastoma.

Quali sono le possibilità di cura attualmente disponibili per la malattia di Wolman?

Al momento non esiste una cura specifica. La terapia enzimatica sostitutiva, disponibile sia negli Usa sia nell’Unione europea, se intrapresa tempestivamente può prolungare la sopravvivenza, ma l’impatto a lungo termine non è ancora noto e inoltre i costi associati a questo trattamento sono molto elevati. In pochi casi, il trapianto molto precoce di cellule staminali ematopoietiche, da sangue cordonale o da midollo osseo, ha dato buoni risultati.

Ultimo aggiornamento

19.02.21

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