Gaia Colasante, ricercatrice, studia ogni giorno la malattia genetica rara: «Forse non sarò io ad arrivare alla cura, ma se il mio lavoro può contribuire a fare dei passi avanti sarà comunque un successo»

Gaia Colasante, 37 anni, neuroscienziata, ce la mette tutta per poter dare una speranza concreta ai piccoli pazienti e ai genitori che convivono con la sindrome di Dravet, una malattia caratterizzata da gravi crisi epilettiche che causa deficit cognitivo e comportamentale. Da anni infatti studia la popolazione di neuroni che modulano l’attività della corteccia cerebrale e le mutazioni del gene SCN1A che ne innescano l’eccessiva stimolazione responsabile delle convulsioni.

«A 23 anni mi sono laureata, più avanti ho capito che volevo fare qualcosa per curare questa malattia, un’encefalopatia epilettica refrattaria che si presenta in neonati altrimenti sani» racconta la ricercatrice. Oggi il suo laboratorio, alla Fondazione San Raffaele di Milano, grazie a fondi Telethon, è impegnato a sviluppare una terapia genica per la sindrome di Dravet. La strada è lunga e in salita ma l’idea di poter cambiare la storia dei pazienti e delle loro famiglie alimenta la tenacia e la determinazione sua e di tutto il team.

«Sento un grosso senso di responsabilità perché il nostro lavoro, le nostre scoperte, il nostro tempo e la nostra energia possono fare la differenza». L’obiettivo che si prefiggono di raggiungere è un traguardo atteso da molti perché al momento non esiste una cura risolutiva per la sindrome di Dravet. Insomma, è una partita tutta da giocare che tutti sperano finisca con l’indiscussa vittoria della ricerca sul gene SCN1A, che è il gene mutato nella maggior parte dei pazienti affetti da questa sindrome. «Forse non sarò io ad arrivare alla cura, ma se il mio lavoro può contribuire a fare dei passi avanti nella direzione di una terapia sarà comunque un successo», perché il progresso medico-scientifico, in fondo, è un gioco di squadra: ognuno aggiunge un tassello al grande puzzle.

Un lavoro, la ricerca, che sempre più spesso coinvolge le associazioni di malattia. Da anni, infatti, gli scienziati del San Raffaele interagiscono con l’associazione Gruppo Famiglie Dravet.

«Comprendiamo le enormi difficoltà che devono affrontare ogni giorno, tocchiamo con mano quali sono gli effetti pratici, nella vita di tutti i giorni, del mal funzionamento dei neuroni che studiamo in laboratorio e tutto questo ci impone di andare avanti. E lo facciamo coinvolgendo le famiglie nel nostro percorso di ricerca, cercando con trasparenza di condividere anche il valore del più piccolo passo avanti fatto, con la consapevolezza però di non illudere nessuno su una cura immediata per i loro figli».

La Dravet è una sindrome di cui c’è ancora molto da scoprire. Una malattia complessa: «Le stesse mutazioni nello stesso gene possono manifestarsi in modo diverso e oggi sono pochi i bambini che con i farmaci antiepilettici a disposizione riescono a tenere sotto controllo le crisi. Quindi a livello mondiale si cerca di mettere a punto terapie innovative che possano correggere le mutazioni genetiche che la innescano».

Una sfida nella sfida perché a quanto pare la “classica” terapia genica - che si basa sull’inserimento di una copia sana del gene nelle cellule che ne contengono uno difettoso - non funziona. O meglio è difficile da attuare perché il “taxi” che normalmente viene usato per veicolare il gene terapeutico nel cervello è inutilizzabile in questo caso. «Non riesce ad assolvere alla funzione: immaginatelo troppo piccolo per poter accogliere tutti i passeggeri a bordo. Stiamo allora studiando un altro modo per curare la malattia. Quindi anziché trasportare fino alla cellula la sequenza, eccessivamente lunga, del gene sano - spiega Colasante - stiamo provando a usare altri strumenti molecolari per forzare la copia sana del gene a lavorare di più. Noi ci mettiamo tutto l’impegno».

La ricerca ha bisogno dell’impegno di tutti, ciascuno in base alle proprie possibilità, secondo lo spirito del Gruppo Famiglie Dravet: «Siamo forti. Insieme di più».

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