In occasione dei 30 anni di Telethon Andrea Ballabio, direttore del Tigem dal 1994, ricorda come è cambiata la ricerca sulle malattie genetiche rare.

Andrea Ballabio con Susanna Agnelli

«Quando ho iniziato a occuparmi di genetica avevamo pochi strumenti a disposizione, studiare il nostro Dna era come guardare la Terra dallo spazio e localizzare grossolanamente la posizione dei diversi Paesi. Tutto è cambiato con il sequenziamento del genoma umano, che ci ha regalato l’intera sequenza del nostro patrimonio genetico: non solo i Paesi del mondo, quindi, ma le singole città con le loro strade e costruzioni, le distanze calcolate al dettaglio».

Non è una visione nostalgica quella di Andrea Ballabio, il direttore dell’Istituto Telethon di genetica e medicina di Pozzuoli (Napoli), ma uno sguardo che abbraccia trent’anni di ricerca nel campo delle malattie genetiche rare. Quelli che ha compiuto quest’anno la Fondazione Telethon e su cui il direttore del Tigem offre il suo punto di vista privilegiato di chi ha iniziato come “cacciatore di geni”.

«Ci definivamo proprio così - gene hunters - quando tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta ho iniziato a occuparmi di quelle mutazioni del nostro Dna responsabili di specifiche malattie. Allora si conoscevano pochi geni-malattia, che andavano letteralmente scovati con tecnologie lunghe e laboriose. Le prime malattie su cui si lavorava erano dovute a proteine responsabili di specifiche reazioni chimiche nelle cellule. A partire dalla proteina si riusciva a clonare il gene che la codificava e, dal confronto della sequenza di persone sane e affette, si trovavano le varianti effettivamente patologiche. Poi si verificava quali fossero gli effetti del difetto genetico nell’attività della cellula. Spesso però non avevamo informazioni sulla proteina e trovare il gene-malattia era ancora più difficile, perché si doveva partire dalla localizzazione cromosomica: una vera e propria battuta di caccia!».

Arrivano i risultati

Il primo gene-malattia in assoluto identificato da Ballabio è quello della steroido-solfatasi, un enzima il cui deficit è associato a una malattia genetica della pelle, l’ittiosi. «Era il 1985, l’anno in cui mi sono specializzato in Pediatria» ricorda Ballabio, che si era precedentemente laureato in Medicina all’Università “Federico II” di Napoli. «Dopo quel gene ne sono seguiti molti altri, tutti localizzati sul cromosoma X e quindi associati a malattie che tipicamente colpiscono i maschi, che ne possiedono una sola copia ereditata dalla madre portatrice sana. Tra i geni associati all’X voglio ricordare quello della sindrome di Kallman e quello dell’albinismo oculare. Abbiamo poi identificato geni su altri cromosomi, come quello del deficit multiplo di solfatasi, che ha permesso di sviluppare un metodo per la produzione di enzimi attivi che vengono ancora oggi somministrati per tutta la vita a pazienti con varie malattie lisosomiali. Abbiamo identificato anche il primo gene associato alla paraplegia spastica ereditaria. Una volta trovato il nostro candidato consultavamo la banca dati di tutti i geni e le proteine noti e iniziavamo a fare luce sul meccanismo di malattie che fino a quel momento non erano neanche diagnosticabili dal punto di vista genetico. La circolazione dei dati, naturalmente, non era istantanea come oggi: l’aggiornamento della banca dati avveniva ogni 4 mesi e il supporto informatico era il floppy disk, inviato per posta!».

A imprimere una nuova direzione alla carriera scientifica e alla vita di Ballabio, che da molti anni dirigeva un laboratorio al Baylor College of Medicine Houston (Usa), è la telefonata del presidente di Telethon Susanna Agnelli, che gli offre di rientrare in Italia per fondare il primo istituto interamente dedicato allo studio delle malattie genetiche.

Nel 1994 nasce così a Milano il Tigem, trasferito a Napoli negli anni successivi. All’inaugurazione sono presenti anche Craig Venter e Francis Collins, i due scienziati che di lì a pochi anni avrebbero annunciato il sequenziamento completo del genoma umano, che Ballabio definisce «uno spartiacque nella storia della ricerca biomedica: ricordo ancora l’emozione incredibile di quando nel 2001 le due riviste scientifiche Science e Nature ne hanno pubblicato i risultati. Per la prima volta avevamo a disposizione un catalogo completo del nostro Dna, un’impresa collettiva che ha visto collaborare ricercatori di tutto il mondo tra cui il mio gruppo, in particolare per la mappatura del cromosoma X».

L’aiuto della tecnologia

Negli anni successivi, la ricerca in campo genetico decolla e in tutto il mondo si scoprono centinaia di geni-malattia, anche grazie all’avanzamento della tecnologia che abbatte notevolmente tempi e costi di lettura del Dna. Fin dalla sua nascita il Tigem dispone di macchinari d’avanguardia e si posiziona come leader nel campo: «A un certo punto, però, abbiamo deciso che una volta identificati questi geni bisognava capire perché un loro difetto provocasse determinate malattie, quali fossero i meccanismi biologici compromessi. Oltre a permettere una diagnosi, volevamo provare a trovare delle strategie di cura, in linea con il mandato della Fondazione Telethon, e questo era l’unico modo per farlo. Con un approccio integrato che mescolasse competenze complementari quali biologia cellulare, genetica e bioinformatica, e sempre all’insegna dell’innovazione».

Per uno scienziato è difficile scegliere quale sia stato il proprio contributo più importante alla conoscenza: nel caso di Ballabio uno dei candidati è certamente il gene TFEB, che nel 2016 gli ha valso anche il prestigioso premio Louis-Jeantet: un direttore d’orchestra che agisce in tutte le cellule, regolando da una parte lo smaltimento di sostanze tossiche, dall’altra la risposta a cambiamenti ambientali quali la carenza di nutrienti o le infezioni. Un meccanismo così potente da essere sfruttato anche dalle cellule tumorali per crescere e che oggi scienziati di tutto il mondo stanno studiando per capire se possa essere governato a fini terapeutici in numerose malattie, genetiche e non.

Ma c’è anche un altro “gene del cuore”, individuato nel 1992: «È quello che determina l’inattivazione del cromosoma X, che negli individui di sesso femminile spegne una delle due copie ed evita così che ci sia una dose doppia dei geni presenti su questo cromosoma, altrimenti molto dannosa: il gene “che fa esistere le donne” per citare uno dei titoli di giornale di allora!».

Ma nessun risultato scientifico è frutto di singoli, come Ballabio tiene a precisare: «Tutto questo non sarebbe stato possibile senza i miei collaboratori, che hanno sempre contribuito con la loro dedizione e le loro idee, e senza la Fondazione Telethon, che ha creduto nella possibilità di fare ricerca brillante e all’avanguardia in Italia, il mio Paese. Grazie anche a tutte le persone che hanno creduto in questo progetto e ci hanno sostenuto con le loro donazioni in tutti questi anni, spero che la nostra passione li convinca a restare al nostro fianco anche in futuro».

Articolo tratto dal Telethon Notizie 2-2020

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