Scoperta del gene responsabile, diagnosi e terapia: molto di quello che ad oggi sappiamo sulla sindrome IPEX lo dobbiamo alle biobanche, strutture che raccolgono campioni biologici di pazienti per metterli a disposizione di ricercatori che operano in diverse parti del mondo con lo stesso obiettivo.

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«Non potrò mai dimenticarmi quel giorno, quando quel nonno bussò alla nostra porta per chiederci di capire quale malattia genetica si fosse portata via i suoi due nipotini a pochi giorni dalla nascita: non sapevo che la risposta a quella richiesta di aiuto sarebbe anche stato l’inizio di una entusiasmante avventura scientifica». Lucia Perroni oggi è in pensione, ma per tanti anni ha lavorato nel Laboratorio di genetica umana dell’Ospedale Galliera di Genova. «Era il 1999 e fare la diagnosi genetica era molto più lungo e complicato rispetto a oggi. Fin dal 1983, però, avevamo istituito una biobanca per raccogliere campioni biologici di pazienti con malattie genetiche da analizzare per scopi diagnostici e di ricerca, che a partire dal 1993 è stata supportata anche da Fondazione Telethon. A portare alla morte i due bambini, gemelli omozigoti, era stata una grave e rarissima immunodeficienza chiamata IPEX, descritta per la prima volta nel 1982 in una famiglia giapponese, ma i cui meccanismi erano ancora poco noti. Per fare la diagnosi, erano stati prelevati alcuni campioni di tessuto dai due neonati e il nonno, che nel frattempo si era molto documentato su quel poco che si sapeva allora della malattia, era venuto da noi per chiederci di studiarli e offrire alle sue giovani figlie la possibilità di avere dei figli sani in futuro. Era chiaro che si trattava di una malattia ereditaria, ma eravamo completamente all’oscuro delle basi genetiche».  

Nonostante qualche remora iniziale – la rarità della malattia, le risorse umane ed economiche necessarie per seguire un caso così complesso, perdipiù in una struttura ospedaliera e non in un istituto di ricerca – la direttrice del laboratorio Franca Dagna Bricarelli, futura coordinatrice del Network Telethon delle biobanche genetiche che sarebbe nato nel 2007, dà il via libera per andare avanti. «Abbiamo iniziato a studiare le varianti genetiche nei diversi membri della famiglia, un’attività che oggi è abbastanza di routine ma che allora non lo era affatto, basti pensare che ancora non era neanche stato pubblicato il sequenziamento del genoma umano – ricorda Perroni. Dall’analisi prenatale non era emerso nulla, le gravidanze erano andate avanti in modo apparentemente normale. Dallo studio allargato della famiglia sono emersi altri casi di bambini morti in età neonatale a causa di una enterite fulminante e intrattabile con i farmaci. Nel 2001 siamo stati contattati da un ricercatore dell’Università di Portland che studiava proprio l’IPEX per identificarne il gene responsabile e ci chiedeva di inviargli dei campioni custoditi nella nostra biobanca: grazie anche al nostro contributo, è stato definitivamente identificato il gene causativo, FOXP3».

La scoperta ha avuto una ricaduta immediata in campo diagnostico: non solo tutti i membri della famiglia genovese hanno potuto sapere se erano portatori della mutazione e ricevere una consulenza genetica ad hoc, ma più in generale è stato possibile sviluppare il test genetico per offrire una diagnosi a tutti i pazienti del mondo, anche in epoca prenatale nel caso di gravidanze a rischio.

Accanto ai progressi nella diagnosi, la scoperta del gene ha dato anche un’accelerata importante alla ricerca sui meccanismi della malattia e su potenziali strategie terapeutiche: ed è qui che entra in gioco Rosa Bacchetta, ricercatrice dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano che, sotto la guida dell’allora direttrice Maria Grazia Roncarolo, studiava da diversi anni proprio il gene FOXP3 e il suo ruolo nell’immunità. «Sapevamo che questo gene regolava l’attività di un particolare tipo di cellule del sangue, i linfociti T regolatori, responsabili della cosiddetta “tolleranza immunitaria”: un fenomeno molto importante che consente al sistema immunitario di non attaccare le strutture dell’organismo, ma che se sregolato può essere alla base di malattie autoimmuni, come per esempio il diabete. A breve distanza dalla pubblicazione che associava questo gene all’IPEX è arrivato all’Ospedale San Raffaele un neonato in coma diabetico a poche settimane di vita: abbiamo quindi sospettato che si trattasse della rara sindrome genetica appena descritta e abbiamo mandato immediatamente i campioni al Galliera per l’analisi genetica. La diagnosi è stata confermata, nonostante il bambino non presentasse ancora l’altro sintomo classico, la diarrea. È stato un segno, abbiamo così deciso di andare a fondo dei meccanismi della sindrome alla ricerca di una possibile cura».      

Da quel momento in avanti Bacchetta si è dedicata completamente allo studio dell’IPEX, affiancata a partire dal maggio del 2003 anche da Laura Passerini. «Grazie alla preziosa collaborazione di Bricarelli e Perroni del Galliera abbiamo potuto raccogliere campioni di altri pazienti e mamme portatrici del difetto genetico sull’intero territorio nazionale. Con il supporto di Fondazione Telethon abbiamo iniziato a studiare se e come potessimo utilizzare la terapia genica, che grazie al lavoro di altri colleghi dell’istituto stava cominciando a dare i primi risultati positivi sui bambini affetti da un’altra rara immunodeficienza primitiva, l’ADA-SCID. Abbiamo quindi provato a “istruire” i linfociti T del paziente a diventare cellule T regolatorie, quelle che non funzionano a causa del difetto genetico nei pazienti IPEX, mediante un vettore virale contenente una versione sana del gene FOXP3». Come descritto alla fine del 2013 su Science Translational Medicine , il gene sano si è dimostrato capace di indurre le cellule a diventare T regolatorie perfettamente funzionanti e in grado di espletare la loro funzione di controllo dell’autoimmunità, anche in condizioni di infiammazione. Con il vantaggio ulteriore di essere cellule del paziente e di non poter in alcun modo scatenare reazioni di rigetto, il principale rischio associato al trapianto di cellule staminali ematopoietiche da donatore.

Nel 2013 Rosa Bacchetta si è trasferita negli Stati Uniti all’Università di Stanford dove, presso il Center for Definitive and Curative Medicine, continua a mantenere come suo obiettivo il trovare una cura per questa malattia così rara e complessa che in un certo senso ha contribuito a definire la sua “identità scientifica”. «Siamo molto vicini alla sperimentazione clinica, entro l’anno speriamo di presentare la richiesta all’ente regolatorio, che negli Usa è la FDA. Peraltro, se si dimostrasse sicura ed efficace, questa strategia potrebbe essere applicata anche in altre malattie autoimmuni più diffuse, in cui è stato dimostrato che le cellule T regolatorie non sono presenti in numero sufficiente o funzionano male, sebbene non in modo così estremo come nell’IPEX. Il primo studio nell’uomo ci aiuterà a capire quanto queste cellule sono in grado di sopravvivere nell’organismo e di esercitare la loro azione terapeutica. Parallelamente, stiamo lavorando anche a un’altra strategia ancora più promettente per la cura di IPEX, che prevede invece la correzione del gene FOXP3 con l’editing genetico direttamente a livello delle cellule staminali ematopoietiche del paziente: a breve saranno pubblicati i primi risultati. Il mio sogno è riuscire a dare una risposta a questi pazienti, che conosco per nome in molti casi, e alle loro famiglie che lottano con tanto coraggio».

Proprio come quel primo bambino giunto in condizioni critiche al San Raffaele, che non ha mai dimenticato e che di fatto è stato determinante per orientare la sua carriera scientifica: grazie a quella diagnosi precoce e alla disponibilità di un fratello compatibile, quel bambino ha potuto fare al San Raffaele il trapianto di cellule staminali all’età di sei mesi e sta tuttora bene. La terapia genica con le cellule autologhe sarà un giorno disponibile a tutti i pazienti.

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