Una ricerca dell’Istituto San Raffaele Telethon di Milano mostra come questa strategia terapeutica potrebbe rappresentare una strada per questa rara immunodeficienza nota solo da pochi anni: ma il percorso per la cura è ancora lungo.

Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica ricercatori DADA2
Nella foto, da sinistra: Emanuela Pettinato, Cristina Mesa Nunez, Laura Magnani, Matteo Zoccolillo, Mariasilvia Colantuoni, Raisa Jofra Hernandez, Claudia Sartirana, Alessandra Mortellaro

Anna Maria aveva solo due anni e mezzo quando ha avuto la sua prima ischemia cerebrale. Ishann dall’età di dieci anni ha iniziato ad avere dei dolori ricorrenti così forti da non riuscire neanche ad alzarsi dal letto. Azelle per tanti anni non ha saputo spiegarsi dolori articolari e la rigidità alle gambe, così come le frequenti emorragie interne. Kelsey si sentiva spesso debole e si riempiva di macchie rosse per cui gli altri bambini la prendevano in giro. Saurabh ha iniziato a soli cinque mesi ad avere una febbre che non passava mai e che non era spiegabile con nessun virus, batterio o altro agente patogeno.

Persone da tutto il mondo che soltanto da pochi anni hanno finalmente potuto dare un nome alla propria malattia, descritta per la prima volta sul New England Journal of Medicine nel 2014: il deficit di adenosina deaminasi di tipo 2, o DADA2, una rara malattia genetica dovuta alla carenza di un enzima essenziale per un corretto sviluppo del sistema immunitario, i cui meccanismi sono ancora in parte sconosciuti e la cui manifestazione può variare notevolmente da un individuo all’altro.

L’identificazione del gene responsabile della DADA2 ha però rappresentato uno spartiacque non solo per poter finalmente dare una diagnosi a chi per anni ha convissuto con un problema sfuggente anche ai medici più attenti, ma anche per iniziare a comprenderne i meccanismi e a immaginare delle possibilità di cura.

All’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (SR-Tiget) di Milano Alessandra Mortellaro studia come correggere in modo definitivo il difetto genetico responsabile di questa malattia. «Oggi l’unica cura definitiva è rappresentata dal trapianto di cellule staminali ematopoietiche, che, nei casi più gravi in cui il midollo osseo smette di funzionare, consente di ripristinare un sistema immunitario funzionante. Si tratta però di un trattamento non disponibile per tutti i pazienti - spiega la ricercatrice, che fa anche parte del comitato scientifico dell’associazione internazionale nata dopo la scoperta della malattia, la DADA2 Foundation - e che potrebbe mettere a rischio anche la sopravvivenza. Ecco perché nel nostro istituto stiamo studiando se la terapia genica, che si è già rivelata vincente per altre immunodeficienze come l’ADA-Scid o la sindrome di Wiskott-Aldrich, possa rappresentare un’alternativa efficace anche per la DADA2, consentendo di correggere il difetto genetico direttamente nelle cellule staminali dei pazienti senza la necessità di trovare un donatore compatibile e di ricorrere a un pesante condizionamento pre-trapianto».

Anche in questo caso l’idea dei ricercatori è quella di correggere le cellule staminali ematopoietiche prelevate dal paziente tramite un vettore lentivirale, derivato cioè dal virus Hiv, contenente una copia funzionante del gene per l’adenosina deaminasi di tipo 2. Un primo, incoraggiante avanzamento in questo senso emerge da uno studio appena pubblicato da Mortellaro e il suo gruppo su Blood Advances, la rivista scientifica della Società americana di ematologia. «Il nostro vettore si è dimostrato in grado di trasferire in modo efficiente il gene terapeutico in cellule staminali ematopoietiche, sia di donatori sani sia di persone con DADA2, che hanno iniziato a produrre la proteina carente. Le cellule così corrette hanno mantenuto la loro funzione fisiologica, ovvero la capacità di differenziarsi nei diversi elementi del sangue. Inoltre, la correzione genica ha dimostrato di avere un effetto positivo su una classe di cellule particolarmente rilevante nella DADA2, i macrofagi: questi infatti non attivano più quella tempesta citochinica eccessiva che dà luogo allo stato di infiammazione cronica che si osserva spesso in questi pazienti e che porta, per esempio, allo sviluppo di vasculiti e dolore generalizzato».

«È importante quindi che, parallelamente agli sforzi per conoscere meglio la DADA2 e mettere a punto trattamenti efficaci, aumenti la consapevolezza tra i clinici»

Alessandra Mortellaro, ricercatrice

Per quanto promettente - come questi primi risultati preclinici sembrano suggerire - la strada verso l’applicazione della terapia genica per la DADA2 è ancora lunga: ci sono diversi meccanismi di base da chiarire e il percorso è complicato dalla mancanza di un modello animale adeguato. «A differenza di quello che si potrebbe pensare, l’enzima ADA2 è diverso da ADA1, quello che risulta carente nei pazienti con ADA-SCID, patologia nota da molto prima e infatti tra le prime al mondo a essere stata curata con la terapia genica - commenta la ricercatrice, che prosegue - entrambi gli enzimi sono coinvolti nel metabolismo dell’adenosina, un “ingrediente” fondamentale per la sintesi del dna e dell’rna, ma ormai è chiaro che svolgono funzioni diverse, come confermano anche le differenze nella manifestazione clinica e nell’età di esordio. Per quanto questa sia una malattia rara, il numero dei casi diagnosticati è certamente destinato a crescere nei prossimi anni: uno studio recente ha stimato che i portatori del difetto genetico siano una persona su 236 e che questo si traduca in una prevalenza di 1 caso ogni 220mila individui, decisamente di più dei circa 400 confermati dal 2014 ad oggi. È importante quindi che, parallelamente agli sforzi per conoscere meglio la malattia e mettere a punto trattamenti efficaci, aumenti la consapevolezza tra i clinici: una diagnosi tempestiva è fondamentale per gestire al meglio i sintomi in attesa che la ricerca offra soluzioni più efficaci e durature».

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