Il 21 giugno si celebra la giornata internazionale della sindrome che costringe chi ne è affetto a lunghe sedute di fototerapia.

Chi ha la sindrome di Crigler-Najjar deve esporsi per almeno 10 ore al giorno a una lampada a raggi ultravioletti

Hanno come simbolo il girasole, perché proprio come questi fiori traggono dalla luce la forza e l’energia per arrivare al giorno successivo: sono le persone con la sindrome di Crigler-Najjar, una rara malattia genetica di cui si celebra la giornata internazionale il 21 giugno. Ovvero il giorno dell’anno con il maggior numero di ore di luce solare.

A causa della carenza di uno specifico enzima del fegato, queste persone non sono in grado di smaltire correttamente la bilirubina che, accumulandosi, può portare a danni neurologici gravi e irreversibili. Nelle forme più gravi, l’unico modo per tenere sotto controllo i livelli di bilirubina è la fototerapia, ovvero l’esposizione quotidiana per almeno 10 ore a una lampada a raggi ultravioletti, gli unici in grado di fare le veci dell’enzima carente e di trasformare la bilirubina in un composto non tossico ed eliminabile con le urine.

Un trattamento salvavita che consente a chi ha questo difetto genetico di avere uno sviluppo cognitivo normale, ma che impatta notevolmente sulla qualità della vita. «Persone molto speciali, che come tutti devono crescere e imparare ad accettarsi così come sono, a superare i momenti difficili e ad apprezzare le meraviglie di ogni giorno. Scoprendo che, a volte, avere il vento contro è proprio quella condizione ideale che ti fa venire voglia di volare» come ha ricordato Velio Venturi, presidente di CIAMI, l’associazione italiana delle famiglie di persone affette dalla sindrome di Crigler-Najjar che si impegna nella diffusione della conoscenza e nel supporto alla ricerca scientifica.

Ad oggi Fondazione Telethon ha investito oltre 2,2 milioni di euro in progetti sulla sindrome di Crigler-Najjar. All’Istituto Telethon di genetica e medicina di Pozzuoli, Nicola Brunetti-Pierri se ne occupa da tanti anni, sia nella sua attività di ricerca che nella sua pratica clinica di medico. Nel 2018 è partito il progetto europeo “CureCN”, finanziato con oltre 6 milioni di euro, per valutare sicurezza ed efficacia della terapia genica per chi è affetto da questa rara sindrome: i due centri clinici italiani scelti per somministrare il trattamento sperimentale sono l’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo e l’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli, con Brunetti-Pierri come responsabile di quest’ultimo centro clinico dello studio. «Per anni abbiamo studiato in laboratorio come sfruttare virus modificati per trasferire una versione funzionante dell’enzima carente nel fegato di questi pazienti. Quando un gruppo di colleghi francesi erano pronti per trasferire nell’uomo i risultati degli studi effettuati nei modelli animali abbiamo deciso di unire le forze, vista anche la nostra esperienza nel gestire studi clinici di questo tipo: nel 2017 abbiamo infatti avviato una sperimentazione clinica di terapia genica su un’altra malattia genetica, la mucopolisaccaridosi di tipo 6, che sfrutta lo stesso tipo di vettore, di tipo adeno-associato (AAV), diretto in modo specifico al fegato. Anche in questo caso - spiega - si tratta di una terapia “in vivo”, il vettore viene cioè somministrato con un’infusione endovenosa direttamente nel sangue e grazie al suo specifico tropismo raggiunge le cellule del fegato dove comincia a produrre l’enzima».

Ad oggi sono solo due i pazienti trattati, nessuno dei quali in Italia. Lo screening delle persone potenzialmente candidabili al trattamento è già iniziato: tra i criteri principali ci sono la gravità della malattia, ovvero la necessità di fototerapia, e l’assenza di anticorpi neutralizzanti contro il vettore virale, che annullerebbe sul nascere le possibilità terapeutiche. «Come sempre quando si testa una terapia assolutamente nuova come questa si parte da pazienti adulti con dosaggi bassi, per poi progressivamente aumentare la quantità di vettore e abbassare l’età, che comunque non andrà al di sotto dei 10 anni – continua Brunetti-Pierri. Una volta fatta l’infusione, il paziente viene tenuto sotto osservazione qualche giorno e rimandato a casa con l’indicazione di continuare a fare la fototerapia e di tenere un diario quotidiano. Dopo 2-3 mesi viene riconvocato in ospedale per valutare, in condizioni controllate, se interrompendo la fototerapia i livelli di bilirubina rimangono effettivamente sotto i livelli di sicurezza».

Un progetto che oltre a offrire una concreta opportunità di cura ha visto anche fin da subito il coinvolgimento attivo delle associazioni di pazienti di Francia, Italia e Olanda. «L’obiettivo è arrivare a trattare complessivamente 17 pazienti. Vista la rarità della malattia - continua il ricercatore del Tigem - è probabile che accoglieremo anche persone da altri Paesi. Bisogna anche considerare la comprensibile titubanza a candidarsi: la malattia non è degenerativa e se tenuta sotto controllo consente di avere una vita sociale, un lavoro, una famiglia. Il prezzo però è molto alto, perché la fototerapia va fatta per tutta la vita, anche per 12 ore al giorno nei casi più gravi; talvolta, l’ittero che rende le loro sclere gialle espone questi pazienti anche a episodi di discriminazione da parte di chi pensa siano affetti da epatite virale. Inoltre, condizioni di stress quali infezioni o interventi chirurgici possono far alzare comunque i livelli di bilirubina oltre la soglia sicurezza ed esporli a gravi rischi. Senza contare poi che in certe zone del mondo la fototerapia non è neanche così accessibile: in Nord Africa, per esempio, chi è affetto da questa sindrome difficilmente raggiunge l’età adulta. Ecco perché è importante lavorare per cercare di offrire un’alternativa valida a queste persone e la terapia genica potrebbe rappresentarlo in futuro».

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