Il rapporto tra alimentazione e salute è ormai ben dimostrato, ma non si tratta solo di mangiare in modo sano per prevenire certe malattie. Per alcune malattie genetiche rare, una dieta speciale può rappresentare una terapia specifica.

Cibo che diventa una terapia per le malattie genetiche rare

Il cibo è salute: lo dice la ricerca scientifica. Non stiamo parlando di qualche dieta fantasiosa  proposta dai media o sui social come panacea di tutti i mali. “Parliamo di schemi alimentari basati su un basso consumo di grassi saturi e zuccheri semplici e su un consumo preferenziale di zuccheri complessi, grassi insaturi 'buoni', fibre e alimenti ricchi di nutrienti funzionali come antiossidanti e polifenoli. In altre parole una dieta ricca di verdura e frutta, cerali integrali, olio extravergine d'oliva, con un buon consumo di pesce e un consumo moderato di latticini, povera di carne rossa. In pratica, una dieta di tipo mediterraneo”. Parola della professoressa Simona Bertoli, docente di nutrizione umana e dietoterapia all'Università di Milano, dove dirige un gruppo di ricerca presso il Centro internazionale per lo studio della composizione corporea, oltre che responsabile del Centro ambulatoriale obesità dell'Istituto Auxologico Italiano di Milano.

Prevenire con la dieta

“I dati raccolti in oltre vent'anni di rigorose ricerche scientifiche svolte in vari paesi lo mostrano chiaramente: una dieta di tipo mediterraneo svolge un ruolo protettivo nei confronti di malattie cardiovascolari, alcuni tumori e malattie croniche degenerative come la malattia di Alzheimer. Più di recente altri studi stanno mostrando risultati analoghi per alcune diete orientali, che hanno caratteristiche nutrizionali simili, anche se le fonti alimentari sono diverse. Viceversa, un'alimentazione basata su un eccesso di grassi saturi (come quelli contenuti nelle carni rosse o lavorate) e di zuccheri semplici (come quelli delle bevande zuccherate) e su uno scarso consumo di frutta e soprattutto verdura si associa a un aumento del rischio delle condizioni citate, oltre che di diabete e obesità, a loro volta fattori di rischio per queste malattie”.

Il cibo come terapia

La ricerca scientifica ha anche mostrato che ci sono molte malattie per le quali il cibo diventa addirittura una terapia, magari nei casi più lievi o negli stadi iniziali, o comunque un valido aiuto ai farmaci. “Succede con il diabete, l'ipertensione arteriosa, l'ipercolesterolemia, con diete che puntano a tenere sotto controllo rispettivamente quantità e qualità degli zuccheri, apporto di sodio e apporto di colesterolo” spiega Bertoli. Aggiungendo che anche nella più grave insufficienza renale mantenere un apporto adeguato di proteine affianca in modo significativo gli altri approcci terapeutici.

Alimentazione terapeutica nelle malattie genetiche rare

Se varie malattie beneficiano in modo più o meno diretto di attenzioni particolari all'alimentazione, per alcune malattie genetiche rare una dieta specifica può rappresentare l'unica – o quasi – opzione possibile, fondamentale per impedire o attenuare lo sviluppo di sintomi importanti. “È il caso di alcune malattie genetiche metaboliche per le quali la dieta costituisce una forma di medicina di precisione che, pur senza correggere il difetto metabolico alla base, permette di aggirarne gli effetti dannosi”, afferma Pierangelo Veggiotti, professore di neuropsichiatria infantile all'Università di Milano e direttore dell'Unità operativa di neurologia pediatrica presso l'Ospedale Buzzi, sempre a Milano. “L'esempio classico di una malattia genetica rara i cui effetti possono essere aggirati con la dieta è quello della fenilchetonuria” racconta Nicola Brunetti-Pierri, professore di pediatria all'Università Federico II di Napoli e responsabile di un gruppo di ricerca sui difetti congeniti del metabolismo presso l'Istituto Telethon di Genetica e Medicina (Tigem) di Pozzuoli. Si tratta di una malattia metabolica causata da un difetto enzimatico che ha per conseguenza un accumulo dell'amminoacido fenilalanina nel cervello, a sua volta responsabile di una compromissione dello sviluppo del sistema nervoso centrale e dunque di una grave disabilità intellettiva. “Se però fin dalla nascita si evita l'apporto di fenilalanina grazie a una dieta povera di proteine (eventualmente integrata con miscele speciali di amminoacidi privi di fenilalanina) la malattia può essere tenuta sotto controllo” spiega Brunetti-Pierri. Anche nel caso di malattie dovute a difetti del ciclo dell'urea a venire in soccorso è una dieta a ridotto contenuto di proteine, associata a farmaci specifici. “In queste malattie i difetti riguardano enzimi necessari per l'eliminazione attraverso l'urea (e quindi l'urina) dell'ammonio, un derivato del metabolismo delle proteine tossico per il cervello. Se questi enzimi non funzionano bene e non c'è controllo sull'apporto di proteine, l'effetto è un accumulo di ammonio nel cervello, con danni irreversibili”.

La dieta chetogenica, tra moda e malattie rare

Nel caso della sindrome da deficit di Glut1, caratterizzata dalla carenza di una molecola che trasporta il glucosio al cervello e da manifestazioni di vario tipo e gravità che possono comprendere difficoltà motorie e cognitive, crisi epilettiche, disturbi del sonno e mal di testa, la dieta fondamentale è invece quella chetogenica, a elevato contenuto di grassi e basso o bassissimo contenuto di zuccheri. A molti il nome (a proposito, significa “dieta che fa venire i chetoni”) suonerà familiare perché è una dieta diventata piuttosto di moda negli ultimi anni anche nella popolazione generale. Il principio di base è l'utilizzo dei grassi come principale fonte energetica dell'organismo: circa l'80-90% del totale, mentre in un'alimentazione “normale” l'apporto dei grassi conta per il 30% ed è superato da quello degli zuccheri (50%). In queste condizioni cambia tutto il metabolismo, portando alla produzione di sostanze chiamate corpi chetonici che possono essere utilizzate come fonte energetica alternativa al glucosio. Spesso questo “trucco” viene utilizzato in diete dimagranti a bassissimo contenuto calorico oppure dagli sportivi, non per perdere peso ma per raggiungere migliori performance, perché i corpi chetonici aiutano a restare più attenti e vigili. “Non è però una dieta che può essere seguita in modalità fai da te perché può comportare effetti collaterali pesanti se non ci si sottopone a controlli regolari e in assenza di integrazioni specifiche” avverte Bertoli.

Per questo motivo i bambini con deficit di Glut1 che seguono la dieta chetogenica sono seguiti molto attentamente, con controlli ogni sei o 12 mesi e un piano preciso di integrazioni. “A queste condizioni non ci sono effetti collaterali importanti” sottolineano Bertoli e Veggiotti. Nel caso di questa sindrome la dieta chetogenica, sviluppata per la prima volta negli Stati Uniti nel 1920, permette di cambiare carburante al cervello: non più glucosio (o, meglio, non solo, perché spesso una piccola quantità riesce comunque ad arrivare al cervello) ma corpi chetonici.

“Pensiamo a un'auto a doppia alimentazione: se finisce la benzina, l'auto continua a funzionare ricorrendo al metano, al Gpl o all'elettricità”.

Pierangelo Veggiotti, professore Università di Milano

I risultati sono decisamente positivi. “Se seguita fin dai primi mesi di vita – sottolinea il neurologo – può portare a una risoluzione quasi completa dei sintomi, soprattutto delle crisi epilettiche e dei disturbi del movimento ma con notevoli miglioramenti anche delle capacità intellettive”.

La dieta chetogenica è proposta anche per alcune malattie mitocondriali e per il deficit di piruvato deidrogenasi, che comporta acidosi lattica e danni al sistema nervoso che possono essere anche molto gravi o fatali. Brunetti-Pierri specifica tuttavia che in questo caso l'alimentazione da sola non basta e si interviene anche con cofattori enzimatici come tiamina, carnitina e acido lipoico e con il farmaco dicloroacetato. Ancora: “La dieta chetogenica è utilizzata per malattie genetiche rare caratterizzate da manifestazioni epilettiche, come la sindrome di West e la sindrome di Lennox-Gastaut, e più in generale per forme di epilessia resistenti ai farmaci, che rappresentano il 30% circa delle epilessia” spiega Veggiotti. Precisando che in questi casi il meccanismo d'azione, non ancora del tutto noto, è diverso da quello che si verifica nelle malattie metaboliche. “Quello che sappiamo è che si verifica una stabilizzazione delle cellule nervose che interferisce con i meccanismi che portano all'innesco delle crisi epilettiche”.

L'importanza degli screening neonatali

Se è vero in generale che prima si comincia a curare la propria alimentazione meglio è per la prevenzione di malattie cardiovascolari e cronico-degenerative e di tumori, nel caso delle diete terapeutiche per malattie genetiche rare il tempismo nell'intervento è assolutamente fondamentale. “Per riuscire a prevenire o limitare i danni in modo efficace è necessario che la dieta terapeutica venga attivata nei primissimi mesi se non giorni di vita, perché se i danni si sono già verificati in genere è impossibile tornare indietro” spiega Brunetti-Pierri. Ecco perché è tanto importante lo screening neonatale delle malattie metaboliche: un semplice test biochimico che viene eseguito tra le 48 e le 72 ore di vita di un bambino e permette di individuare oltre 40 di queste malattie prima della manifestazione dei sintomi, quando sarebbe troppo tardi per intervenire in modo davvero efficace.

Importantissime, però... I limiti delle diete terapeutiche

Attenzione, però: per quanto queste diete terapeutiche siano importanti, non sempre hanno effetti risolutivi e comunque seguirle non è una passeggiata: l'impatto sulla vita dei pazienti e delle famiglie è notevole.

Prendiamo la dieta chetogenica: “Quando è stata introdotta in Italia, circa 25 anni fa – spiega Bertoli – gli alimenti tra i quali scegliere erano molto limitati: mascarpone, panna, tuorlo d'uovo, maionese, piccole quantità di pesci grassi, noci, olive, olio d'oliva. Niente pane, pasta, pizza, patatine: i cibi preferiti dai bambini. Oggi le cose sono migliorate, sono disponibili alimenti chetogenici a base di fibre che simulano la consistenza del pane, dei biscotti, di una base per la pizza, ma resta per i pazienti il grande disagio di non potersi sentire come gli altri in un momento di grande rilevanza sociale com'è quello dei pasti. I bambini invitati a una festa di compleanno devono portarsi il dolce da casa, i ragazzi non possono andare in pizzeria con gli amici e così via. Per tutta la vita”. Per tutta la vita, inoltre, devono pesare al decimo di grammo i componenti di ogni pasto quotidiano. Non tutti riescono a convivere con queste restrizioni, ma abbandonare la dieta significa andare incontro a problemi.

“Per le famiglie è importantissimo poter contare su centri specializzati, sulla creazione di una cultura diffusa sul tema, in modo che per esempio le mense scolastiche possano attivarsi per garantire queste diete speciali in caso di bisogno, sulla creazione di reti con medici, ricercatori e altre famiglie” racconta Bertoli. Che a questo proposito cita come esempio il grande lavoro fatto dai genitori dell'Associazione italiana Glut1, che hanno messo a disposizione testimonianze, competenze, ricettari e, in collaborazione con l'Università di Pavia e il Politecnico di Milano, hanno sviluppato un'app dedicata alla gestione della dieta chetogenica. “Tutto questo ha aiutato molto altre famiglie nell'accettazione della dieta terapeutica”.

Perché la ricerca deve continuare

“Proprio perché i limiti esistono, resta prioritario continuare a fare ricerca, per trovare strategie alternative che possano affiancare o sostituire la dieta terapeutica”

Nicola Brunetti-Pierri, ricercatore Telethon

Per la fenilchetonuria, per esempio, nel 2019 è stata approvata in Europa la prima terapia enzimatica sostitutiva, da somministrare una volta al giorno per iniezione e indicata per pazienti con più di 16 anni che non hanno un adeguato controllo della fenilalanina nel sangue. Sono stati inoltre ottenuti risultati incoraggianti con la sperimentazione preclinica di una terapia genica (in questo caso l'obiettivo è fornire al paziente una versione funzionante del gene codificante per l'enzima difettoso), appena avviata alla sperimentazione clinica. Nel caso della sindrome da deficit di Glut1, invece, si stanno cercando soluzioni in grado di migliorare il trasporto del glucosio a livello cerebrale, anche da parte di ricercatori sostenuti da Fondazione Telethon, come Federico Zara dell'Istituto Gaslini di Genova e Paolo Grumati del Tigem. La ricerca, come sempre, non si deve fermare.

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