In genetica non è tutto bianco o nero, e per convincersene la distrofia muscolare facio-scapolo-omerale è un ottimo esempio. «Ci sono addirittura pazienti gemelli che pur avendo lo stesso patrimonio genetico sono uno in sedia a rotelle e l’altro praticamente privo di sintomi. Si tratta certamente di casi limite, che però confermano quanto ci sia ancora tanto da scoprire sull’origine di questa malattia, tra le più comuni patologie muscolari ereditarie» spiega Rossella Tupler, professore di Genetica medica all’Università di Modena e Reggio Emilia.

L’insorgenza di questa malattia, che gli addetti ai lavori abbreviano in FSHD, è stata finora associata a un difetto genetico molto particolare a livello del cromosoma 4: una sequenza di Dna che normalmente si ripete e che negli individui affetti presenta un numero inferiore di queste ripetizioni. La FSHD si trasmette con modalità autosomica dominante: significa cioè che un genitore malato ha una probabilità su due di trasmetterla ai figli e che non esistono portatori sani, ma solo individui malati o non malati. «La realtà della pratica clinica, però, smentisce spesso queste regole - spiega la ricercatrice. Grazie anche alla Fondazione Telethon è stato messo a punto un registro che negli anni ha raccolto i dati clinici e genetici di oltre 800 famiglie italiane in cui era presente il difetto genetico: ebbene, dall’analisi è emerso che soltanto il 60 per cento di loro presenta i sintomi “classici” e che in generale c’è una notevole variabilità, talvolta anche all’interno della stessa famiglia. Ci sono persone che pur presentando il difetto genetico non manifestano alcun sintomo per tutta la vita, altre che ne hanno soltanto alcuni, altre ancor che presentano anche altri problemi di natura non muscolare: la cosa sorprendente è che questa variabilità può sussistere all’interno di una stessa famiglia e riguardare non solo la gravità, ma anche l’età di esordio. E per aggiungere un ulteriore livello di complessità, abbiamo osservato che ben il 3 per cento della popolazione generale presenta queste ripetizioni ridotte sul cromosoma 4: eppure le persone con una diagnosi clinica sono molte meno, quindi è chiaro che deve esserci dell’altro per spiegare il quadro clinico che osserviamo».

La grande sfida adesso è quindi quella di capire quali altri fattori possano essere determinanti per la prognosi: tipologia di mutazione (ereditaria o sporadica), presenza di altri geni, ma anche sesso, età, stili di vita. «Ad oggi non siamo ancora arrivati a una conclusione univoca ed è per questo che è importante continuare a sostenere la ricerca di base - continua Rossella Tupler. - Di sicuro, però, rispetto al passato è cambiato completamente il modo con cui noi genetisti gestiamo la consulenza genetica. Per prima cosa non consideriamo mai il paziente da solo, ma sempre nel contesto dell’intera famiglia: quanti più parenti, prossimi o lontani, riusciamo ad analizzare clinicamente e a livello del Dna, tanto più siamo in grado di valutare il rischio di come, per l’individuo portatore della mutazione genetica, la malattia potrà evolvere e dare indicazioni utili e personalizzate per la sua vita e per la pianificazione familiare».

L’auspicio, insomma, è che grazie alla ricerca si possa arricchire la “carta di identità” di questi pazienti e classificarli in base al rischio di sviluppare la malattia e alla gravità, come si è già fatto per la fibrosi cistica, una delle malattie genetiche più frequenti per la quale qualità di vita e sopravvivenza sono migliorate negli ultimi vent’anni. «Il registro ci ha aiutato e ci aiuterà tantissimo: un’opera collettiva che ha visto coinvolti tutti i centri clinici italiani che si occupano di distrofia facio-scapolo-omerale e che non sarebbe stata possibile senza la collaborazione delle famiglie, che hanno accettato di mettersi a disposizione per i nostri studi anche a distanza di molti anni dall’ultimo incontro. È per tutti loro che lavoriamo ogni giorno ed è a loro che va il mio più sentito grazie, dal cuore».

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